La triste decadenza del calcio italiano
Tanti stranieri, troppe polemiche, un eccesso di sovraesposizione mediatica, giocatori che pensano più a tatuaggi e gel che a faticare sul campo: e dal 2006 la Nazionale - con l’eccezione irripetibile dell’Europeo 2020 - ha raccolto più brutte figure che buoni risultatiPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
In un recente “Il caffè” sul Corriere della Sera, spazio giornaliero nella prima pagina del quotidiano più letto in Italia, il giornalista Massimo Gramellini spiegava di essere rimasto colpito dalla scarsa conoscenza dei giocatori e dal poco interesse per il calcio dimostrato dagli studenti di un liceo nazionale. Tutti sanno chi è Jannik Sinner, spiegava l’autore, pochi o nessuno i nomi dei principali protagonisti del mondo del pallone tricolore.
Un intervento, al netto delle polemiche riguardanti la data della presunta visita alla scuola (il pezzo è stato pubblicato quando le lezioni erano già terminate, dunque secondo qualcuno si tratterebbe di un racconto di fantasia), che a nostro parere fotografa in ogni caso con nitidezza una tendenza in corso da tempo: il costante calo di interesse da parte delle nuove generazioni per uno sport ormai sovraesposto mediaticamente, caotico nei calendari, eccessivamente polemico nelle sue componenti principali (i calciatori, gli allenatori, i presidenti), spesso protagonista di episodi violenti sugli spalti e intorno agli stadi. In definitiva, palesemente incapace di rinnovarsi in modo adeguato per attirare l’attenzione dei più giovani, futuro della società e di ogni attività sportiva.
I buoni esempi
A voler essere banali, si potrebbe prendere a esempio l’impennata eclatante del tennis, sport che dalle macerie degli anni Novanta è arrivato - solo per citare i tre casi più evidenti - a conquistare la Coppa Davis maschile lo scorso autunno dopo un digiuno ultra quarantennale (mentre le donne, più avanti su questo fronte, hanno vinto per quattro volte la corrispondente Billie Jean King Cup: nel 2006, 2009, 2010 e 2013) e a conquistare la posizione numero uno nel ranking mondiale Atp con Sinner. O anche all’atletica, con gli straordinari successi di Jacobs, Tortu, della 4x100, di Tamberi e di tutti i componenti (e non solo) della squadra azzurra. Programmazione, fatica, pazienza, nuovi metodi di lavoro: così sono nati e cresciuti i talenti che oggi hanno consentito di raggiungere risultati inimmaginabili sino a qualche anno fa. E il calcio?
Il calcio è fermo, vivacchia, galleggia in uno stagno immobile con le sue convinzioni, i suoi atteggiamenti e la sua aria di superiorità a fronte tuttavia delle ormai innumerevoli e ripetute sconfitte incassate negli anni più recenti. Ultima delle quali la disastrosa eliminazione dall’Europeo di Germania per mano della Svizzera dopo una partita considerata pressoché all’unanimità tra le più brutte (se non la peggiore) mai giocate dalla nostra Nazionale.
Sconfitta che segue, per restare in tema e comprimendo temporalmente le cadute di questo decennio ristretto, le mancate qualificazioni ai Mondiali del 2018 e del 2022. Un tunnel la cui uscita ancora non si vede e che potrebbe anzi allungarsi, perché in queste condizioni non è scontato l’accesso alla prossima competizione planetaria in programma, nel 2026, tra Canada, Usa e Messico: torneo al quale parteciperanno ben 48 squadre, solo 15 delle quali però europee. E le condizioni odierne dell’Italia non lasciano ben sperare.
Puntualmente a ogni caduta si registrano reazioni da parte di tutte le componenti (Federazione in primis ma anche “esperti”, dirigenti, ex calciatori e così via) ognuna delle quali suggerisce la propria ricetta magica per risolvere i problemi e far tornare a primeggiare il nostro Paese nel rettangolo di gioco. In sintesi: più spazio ai ragazzi, che in Italia sono considerati acerbi ancora a 25 anni mentre altrove (soprattutto Spagna, Francia e Inghilterra) già a 17/18 anni vengono buttati nella mischia; meno tattica e più tecnica nelle categorie giovanili, dove si deve dare libero sfogo alla voglia di dribblare e sprigionare la fantasia più che imparare gli schemi di gioco; incentivare la nascita delle seconde squadre, utili a far crescere gli Under ben più che un semplice campionato Primavera dove l’agonismo non è paragonabile a quello di un campionato vero (ma sinora le uniche società a seguire questa strada sono state la Juventus e, recentemente, l’Atalanta: si aggiungerà da questa stagione il Milan); puntare su allenatori che amino il bel gioco piuttosto che affidarsi a chi specula sulla resistenza a oltranza (per spiegarla molto semplicemente) nella speranza poi di colpire nelle poche occasioni concesse dagli avversari; e così via.
Soldi, non passione
Utopia. La Serie A e il calcio in generale sono di fatto business, denaro, non più semplice passione e sport. Ad alti livelli servono decine di milioni di euro per costruire una squadra e farla sopravvivere come si deve: pochi rischiano la categoria per seguire una strada magari nuova, che porti a giocare in modo innovativo e però magari rischiosa e alla lunga controproducente, con un finale negativo: a seconda dei club, il mancato successo del titolo, il mancato accesso alle coppe europee, magari la retrocessione nei tornei inferiori. Con tutti i danni conseguenti. Chi in Italia ha il coraggio di inoltrarsi in avventure dall’esito incerto, con l’ulteriore e non banale conseguenza di dover fronteggiare (oltre al danno economico per il mancato risultato) una contestazione di piazza che, dalle nostre parti, non è rara e spesso diventa violenta? Pochi gli esempi virtuosi, nonostante gli ottimi risultati: l’Atalanta, che da anni puntando su giovani talenti e sostenibilità frequenta regolarmente le coppe (anche la Champions) e ha appena vinto una Europa League; il Monza, arrivato per la prima volta in Serie A per poi conquistare una tranquilla salvezza; il Sassuolo, al netto dell’ultima sfortunata stagione culminata nella retrocessione; il Lecce; il Bologna del biennio 2022-2024. Poco altro.
Tanti stranieri
Il problema principale, dicono, è che la gran parte delle rose sono formate da giocatori stranieri, alcuni del tutto sconosciuti e poco competitivi, che tolgono spazio ai nostri talenti. Situazione legata al poco coraggio degli allenatori e dei club, pare. Forse. Resta il fatto che acquistare non connazionali è un vantaggio economico introdotto nel 2019 col “decreto crescita”, utile a favorire il cosiddetto “rientro dei cervelli” e per attrarre in Italia lavoratori qualificati grazie a benefici fiscali che nel mondo del calcio hanno consentito alle società di offrire a chi arriva dall’estero uno stipendio netto più alto (a parità di stipendio lordo) di quello che può proporre agli altri; inoltre i club sono sempre alla ricerca di sconosciuti nella speranza che esplodano per poi rivenderli a prezzo triplicato sistemando i conti.
Una scuola gloriosa
Resta da capire come sia possibile che una scuola capace di regalare campionissimi come Gigi Riva, Mazzola, Rivera, Rossi, Conti, Baggio, Totti, Del Piero, Scirea, Tardelli, Baresi, Maldini, Buffon e Zoff (solo per citarne qualcuno) oggi si limiti a proporre Dimarco, Scamacca, Zaccagni, Chiesa (per tacere degli altri) e si debba affidare, per la Nazionale, a oriundi quali Jorginho e Retegui. Sintomo di quanto il movimento sia cambiato, e certamente peggiorato, in questo nuovo millennio.
La Federazione
È palesemente un problema di organizzazione e programmazione, con la Federazione rivelatasi incapace di indicare la strada da seguire e anche di proporre soluzioni utili a uscire da una impasse che ha portato il calcio italiano, per quattro volte campione del mondo, in terza o quarta fila. La litigiosità tra vertici del pallone (comprese la Lega di Serie A e le sue componenti principali, cioè le società), non aiuta. Di questo passo, mancare la qualificazione al terzo Mondiale di fila è più di un incubo: è quasi una certezza. Speriamo di sbagliarci.