Seimila anni di storia non sono bastati per la sopravvivenza. La lingua yagan, idioma di una tribù indigena nella parte più meridionale della Terra del Fuoco, in Sud America, si è persa per sempre con la scomparsa della sua ultima custode, diventata Tesoro umano vivente riconosciuto dall’Unesco. Cristina Calderon è morta a Punta Arenas, nella parte estrema del Cile, a 93 anni il 16 febbraio scorso: era esponente madrelingua di una tribù nomade, che viveva tra Cile e Argentina. Aveva figli e nipoti ma nessuno di loro ha appreso la lingua yagan detta anche yamana che raccoglie la bellezza di 32.400 parole. Patrimonio sterminato se si considera che i vocaboli usati in media da un essere umano sono nell’ordine di cinquemila.

La nonnina simbolo di un popolo estinto è diventata un mito per l’impegno instancabile portato avanti pur di trasmettere come poteva la sua cultura millenaria. Con la nipote Cristina Zarraga ha realizzato un dizionario yamana-spagnolo, un cd in cui proprio con la sua voce sono registrate le parole usate con più frequenza in una quotidianità ormai perduta: vocaboli come vento, anima, cane e tanti altri. Un’altra porzione importante di memorie l’ha affidata a un libro di leggende e racconti del suo popolo che porta il titolo «Hai Kur Mamasu Shis», cioè «Voglio raccontarti una storia». Ma nella comunicazione orale l’antica lingua è un patrimonio perduto per sempre, anche perché veniva trasmessa da persona a persona.

Cristina Calderon era superstite di una storia antica e affascinante, legata alla tribù yamana che occupò i canali della Terra del Fuoco circa seimila anni fa, una volta che si erano attenuate le tracce della glaciazione. La comunità di indigeni viveva tra foreste di faggi australi e coste frastagliate esposte alle tempeste. Era abile nella pesca, nella caccia e nella navigazione. La sua lingua è stata tra le prime del Sud America registrate da esploratori e missionari. Per questo popolo i primi problemi arrivarono alla fine del XVIII secolo con la caccia ai mammiferi marini e alle otarie da parte di nordamericani ed europei. Era una delle risorse di sussistenza per gli Yamana che patirono pesantemente le conseguenze dell’alterazione dell’ecosistema. A complicare la situazione l’introduzione da parte dei coloni di specie estranee al territorio, come conigli e castori, che incisero ancora sull’equilibrio naturale.

Il calo della popolazione si fece sentire già due secoli fa. Quando Charles Darwin, con le sue ricerche sull’evoluzione delle specie, arrivò nelle isole Falkland e nella costa estrema del Sud America, la tribù non contava più di tremila persone. Incontrò gli indios Yamana la prima volta nel 1832 e nel suo diario ne dà conto. Subito dopo un’epidemia ridusse di molto la comunità. Nel 1884 erano appena mille persone. Nello stesso anno, per colpa di un’epidemia di morbillo, i numeri precipitarono a 400. Nel secolo successivo si scese ancora più giù: 170 nel 1908, nel 1932 appena 43, meticci compresi. L’estinzione della tribù procedeva inesorabile.

Nel 2005 la morte di Acuna Calderon lasciò a Cristina, sua sorellastra, lo scettro storico di essere l’unica purosangue Yagan vivente, l’ultima persona sulla terra a parlare la lingua degli antenati, a divulgare le tradizioni di un popolo di canoisti e di artigiani capaci di confezionare canestri di canna con una tecnica particolare. Dal governo cileno era arrivato il riconoscimento pubblico come depositaria e divulgatrice della lingua e delle tradizioni del popolo Yamana, Tesoro umano vivente per il Consiglio nazionale della cultura e delle arti del Cile. Cristina Calderon, acclamata anche dall’Unesco con un riconoscimento riservato ai «portatori di tradizioni e professionisti di talento», ha chiuso un ciclo genealogico.

«Il suo amore, i suoi insegnamenti e le sue lotte dal sud del mondo vivranno per sempre», ha commentato il presidente cileno Gabriel Boric dopo l’annuncio della morte dato dalla nipote Lidia Gonzales Calderon, attuale vicepresidente dell’assemblea costituente del Cile.

Il volto di Cristina Calderon in questi giorni ha fatto il giro del mondo portando l’attenzione sulla parabola di una lingua a molti ignota. In Europa è andata allo stesso modo per il livone, ultima lingua estinta in questo Continente dove nel corso del Novecento sono spariti circa sessanta idiomi. Era legata alla famiglia ugrofinnica e parlata nella regione della Curlandia, in Lettonia. Nel 2009 è morto Viktors Bertholds; nel 2013 la cugina Grizelda Kristina a 103 anni si è spenta in Canada dove era emigrata. Con loro è finito un intero patrimonio linguistico.

Secondo i dati Unesco oggi al mondo sono parlate tra 6 e 7 mila lingue. Ma il 97 per cento della popolazione usa abitualmente il 4 per cento delle lingue conosciute. Si stima che circa 2 mila siano a rischio nell’arco di breve tempo perché ognuna di queste sopravvive in un circuito ristretto di appena mille persone. Sorte segnata anche per molte delle 221 lingue parlate in Europa: se la sua circolazione è limitata a meno di 300 mila persone il campanello d’allarme è scontato. Ogni lingua è, infatti, strumento vivente: muta e si adatta, ma può anche morire se per qualche motivo la trasmissione tra genitori e figli si inceppa.

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