È una mattina d’autunno, la luce del giorno rischiara appena un cielo livido e colmo di pioggia. Milano è una città che sta provando a cancellare il ricordo delle bombe e di una guerra sanguinosa. Quel 30 novembre del 1946 tutto ridiventa all’improvviso buio davanti a uno dei delitti più feroci che la cronaca nera italiana ricordi. In un appartamento di via San Gregorio, una strada laterale del centralissimo corso Buenos Aires, vengono trovati i corpi senza vita di una donna e dei suoi tre figlioletti. Franca Pappalardo, 34 anni, Giovanni, 7 anni, Giuseppina, 5, e Antonio, appena 10 mesi. Tutti uccisi a colpi di spranga la sera prima, secondo le prime ricostruzioni che verranno confermate anche dagli esami successivi. Viene annientata in pochi minuti la famiglia di Giuseppe “Pippo” Ricciardi, 35 anni, originario di Catania, piccolo commerciante di tessuti che ha un negozio nello stesso caseggiato. Lui non c’è perché è fuori per affari.

UNA SCENA INFERNALE

È Rina Somaschini, commessa che lavora per Ricciardi, ad accorgersi del massacro. Come ogni mattina sale nell’appartamento per ritirare le chiavi del negozio ma trova la porta aperta e le luci accese. Vede una scena da incubo: urla, corre verso la portineria, sviene. L’allarme è immediato, in pochi minuti arriva la polizia: gli agenti si trovano sotto gli occhi una scena raccapricciante. Dietro la porta c’è il cadavere della donna, massacrata - accerterà poi il medico legale - con diciotto colpi di spranga. Accanto a lei il corpo di Giovanni, ucciso con otto colpi alla testa. Qualche metro più in là, in cucina, Giuseppina: stessa brutale dinamica, con quattro sprangate devastanti. Vicino, sul seggiolone, c’è il  piccolo Antonio, sopraffatto da un solo colpo dopo essere stato soffocato con un pannolino infilato in bocca.

LA SVOLTA ARRIVA SUBITO

Per gli inquirenti il mistero di quella strage dura poche ore. Basta il racconto di alcuni testimoni per arrivare sulla strada giusta. Tutti sanno che Pippo Ricciardi, il commerciante di tessuti, aveva avuto una relazione con una donna prima che la sua famiglia arrivasse dalla Sicilia. I testimoni contattati subito dopo il massacro fanno lo stesso nome. Caterina Fort, 31 anni, friulana, mora, di bell’aspetto, impiegata nel negozio di Ricciardi, viene fermata e portata in questura. Interrogatorio incalzante, una raffica di domande senza risposte. Ma lei respinge le accuse con una calma quasi glaciale: “Non mi sono mai mossa da casa, per tutta la sera stavo ascoltando la radio”. La scena dura alcune ore, la svolta arriva all’improvviso. La donna chiede di indossare il cappotto: “Ho freddo, posso mettermelo?”. Con un’occhiata fulminea il commissario Mario Nardone nota tre piccole macchie scure nella parte interna dell’indumento. Il cappotto viene subito analizzato. È sangue. Si ricomincia con le domande, sempre più pressanti. Rina Fort cede, ma solo in parte: “Sono stata io, però i bambini no, non li ho ammazzati. C’era qualcun altro con me, c’era Carmelo”.

IL PRESUNTO COMPLICE

Viene individuato il presunto complice: è Giuseppe Carmelo Zappulla, figlio di un avvocato catanese che vive a Milano, è soprattutto cugino di Ricciardi. Le dichiarazioni della donna portano all’arresto dell’uomo. Ma, nonostante ricerche, testimonianze, confronti, non si trova uno straccio di prova e alla fine viene scagionato. Ma nessuno gli restituirà mai i diciotto mesi di carcerazione preventiva a San Vittore e la gogna pubblica riservata a chi è stato accusato di essersi macchiato di un delitto così odioso. 

LE INDAGINI E LA CONDANNA

C’è un dettaglio inquietante nella vicenda. Nessuno riesce a rintracciare Ricciardi: l’uomo riappare dal nulla il giorno dopo e torna a casa come da una normale trasferta di lavoro. È il portiere dello stabile a fermarlo: “Non salga, vada all’obitorio. Le hanno ucciso moglie e figli”. Scopre che la sua famiglia è stata sterminata, si mostra sconvolto. Ma la polizia non gli crede e lo arresta. Alla fine risulta davvero estraneo alla strage, la sua posizione viene archiviata dopo la fase istruttoria. La condanna morale però non lo abbandonerà mai sino alla fine sei suoi giorni.

Dal processo show seguito giorno per giorno da centinaia di persone si arriva a una conclusione certa. L’unica colpevole è Rina Fort: si voleva vendicare dell’amante che aveva deciso di lasciarla e così gli ha massacrato gli affetti più  cari. La donna verrà condannata all’ergastolo senza mai confessare l’omicidio dei tre bambini. Uscirà di carcere nel 1975, quando riceve la grazia. Morirà nel 1988 a Firenze dove si trasferisce dopo il carcere, assumendo il cognome del vecchio marito, Benedet.

LA STRAGE DI VIA SAN GREGORIO

Anche se la soluzione del mistero arriva in fretta, la strage dei bambini e la tresca amorosa tra la commessa friulana e il commerciante siciliano riempiranno per anni le cronache dei giornali di tutta Italia. È il primo fatto di cronaca nera scollegato dalla stagione di morte della guerra, è una vicenda che spaventa e colpisce l’immaginario collettivo. Dietro c’è la storia di una donna instabile e delusa che incontra un uomo con pochi scrupoli, capace di inventare una trama fantasiosa per sedurre la 31enne arrivata a Milano dalle campagne udinesi. Ricciardi le racconta una vita totalmente inventata quando la incontra in un bar in via Lazzaretto. “Sono scapolo” le dice subito. “Vivo solo a Milano”. È vero che Ricciardi vive da solo, ma solo perché si trasferito nel capoluogo lombardo per avviare un’attività in attesa che la famiglia lo raggiunga dalla Sicilia.

LA STORIA CLANDESTINA

La bella friulana non cede subito alle avances, ma il commerciante insiste. Lui non è certo bello ma si propone con la sicurezza di chi ha certezze economiche: “Ho denaro a sufficienza”. E poi lei vuole trovare stabilità dopo una giovinezza fatta di lutti, abbandoni e anche di un matrimonio fallito (il marito finisce in manicomio). Si “fidanzano”, vanno a vivere insieme in un appartamento di Via Macchi. Pippo apre il negozio di maglie e tessuti in via San Gregorio, Caterina lavora come commessa. Passano le settimane, i mesi e la donna vuole sistemare le cose: “Dobbiamo farci una famiglia”. Lui è costretto a prendere tempo ma alla fine non ha più margini di manovra e può solo confessare: “Sono già sposato”. Moglie, due figli e un terzo in arrivo. Con una novità pressante: la famiglia sta per arrivare dalla Sicilia, non c’è più spazio per il suo amore clandestino. Per Rina è uno choc: i suoi sogni, i suoi progetti di vita vanno in frantumi in un attimo. Per qualche tempo si mette in scena una finzione di comodo per tutti e due. La Fort per tenere il lavoro, Ricciardi per salvare la famiglia. Ma Franca Pappalardo impiega poco a capire che tra suo marito e la giovane ci sia qualcosa che non quadra. Gli intima di cacciarla dal negozio. Per Rina è il cortocircuito finale.

IL MASSACRO DEGLI INNOCENTI

L’occasione per dare sfogo alla rabbia, alla voglia di vendetta per la sua vita andata per l’ennesima volta in frantumi, arriva nel tardo pomeriggio del 29 novembre 1946. È l’occasione giusta perché Pippo Ricciardi è a Prato per un incontro di lavoro. Caterina si presenta al primo piano di via San Gregorio. Bussa alla porta, è sola secondo la ricostruzione processuale passata per tutti i gradi di giudizio. Non secondo lei, che ribadirà all’infinito di essere stata in compagnia di Carmelo Zappulla, “un uomo dalle mani forti”. Franca apre senza alcun timore, anzi offre qualcosa da bere a Rina. Poi scatta qualcosa, è probabile che le due donne abbiano una violenta discussione. La commessa friulana afferra un oggetto di ferro, quasi una sbarra, che trova a porta di mano e si accanisce sulla 34enne, facendola stramazzare a terra. Poi colpisce senza pietà anche i tre bambini. Uno dopo l’altro, un’azione brutale che dura diversi lunghissimi minuti.

L’inferno è servito, una famiglia innocente viene sterminata dalla furia cieca della ragazza illusa e tradita: ancora oggi il massacro di via San Gregorio viene ricordato come uno dei delitti più efferati della storia criminale del dopoguerra.

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