Chi ha seguito la vicenda ha certamente memoria del caso di Beniamino Zuncheddu, il pastore di Burcei condannato nel 1992 all’ergastolo per la strage di Sinnai (gennaio 1991, tre morti) e poi assolto lo scorso gennaio nel processo di revisione dopo aver trascorso oltre tre decenni in carcere. Ecco: l’elemento alla base del ribaltamento della sentenza (cioè le intercettazioni che hanno consentito di arrivare al nuovo, clamoroso verdetto) oggi non potrebbero essere pubblicate sui giornali. Non come è stato fatto nel corso dell’inchiesta che ha portato alla revisione della sentenza originaria.

Colloqui e atti

I colloqui tra l’uomo sopravvissuto all’eccidio e la moglie, andati in scena nell’auto della coppia poco dopo la testimonianza resa dal superstite in Procura generale a Cagliari nel febbraio 2020, resterebbero nelle pagine degli atti di indagine e non potrebbero essere portati a conoscenza della pubblica opinione se non in forma sintetizzata e riassunta, non certo letterale. La loro stesura nelle pagine dei quotidiani o dei siti web sarebbe in mano al giornalista (o chi per lui) che, letto il botta e risposta, si farebbe un’idea e la trascriverebbe in base alla propria sensibilità e capacità riassuntiva. Che potrebbero anche essere non del tutto aderenti alla realtà.

Conseguenza del decreto legislativo approvato di recente dal Governo col quale si modifica l’articolo 114 del codice di procedura penale vietando la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, e delle intercettazioni a esse allegate, fino alla conclusione delle indagini preliminari o al termine dell’udienza preliminare: decisione, sostengono gli ideatori del provvedimento, legata all’adeguamento alla direttiva Ue 2016/343 sulla presunzione di innocenza e all’indispensabile necessità di tutelare “persone terze”, quindi in ipotesi estranee all’inchiesta, dall’indiscriminata e malsana abitudine di pubblicare anche il loro nome alimentando l’effetto “buco della serratura”: quello cioè di guardare attraverso un piccolo varco le abitudini, gli usi e i costumi degli italiani (anche quelli attinenti esclusivamente alla sfera personale) che dovessero emergere da chiacchierate o telefonate private che nulla hanno a che vedere (in linea del tutto teorica) con comportamenti di rilievo penale.

Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei ministri
Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei ministri
Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei ministri

Doppio standard

Finalità che ha una sua giusta valenza e tuttavia ci pare di poter ritenere strumentale a un unico obiettivo: non rendere note all’opinione pubblica le (spesso) illecite abitudini principalmente di chi occupa un posto apicale nella pubblica amministrazione, dal piccolo Comune ai grossi centri abitati, dalle Regioni al Parlamento al Governo. I famosi colletti bianchi, insomma. Perché del resto sarebbe giusto scoprire solo per caso, proprio tramite le intercettazioni legate magari a un’inchiesta di tipo completamente diverso, che un senatore, un consigliere regionale, un sindaco, il dirigente di un’azienda pubblica, un leader di partito frequentano personaggi poco raccomandabili, utilizzano sedi istituzionali per scopi privati, brigano per nomine apicali in aziende partecipate e financo per mettere ai posti di comando magistrati amici e utili ai propri interessi?

Questione di civiltà, si dice. Che evidentemente non si applica ad altri campi, o meglio: ad altre tipologie di persone. Vedi ad esempio chi frequenta le curve degli stadi di calcio e i loro leader. La recentissima indagine sui crimini commessi nei gruppi ultrà di Inter e Milan, con arresti (19) e la scoperta di taglieggi, omicidi, risse, pestaggi è stata interamente riportata su tutti i quotidiani e raccontata nel complesso e con ampi dettagli da televisioni e siti web. Non è sfuggita una sola parola del documento con cui il gip di Milano ha ordinato incarcerazioni e provvedimenti restrittivi. Sono stati resi noti anche i nomi delle famose “terze persone” estranee all’inchiesta, quelli di rapper tra i più conosciuti in Italia, e nessuno (soprattutto tra chi ha varato il provvedimento normativo) ha avuto alcunché da ridire. Tutti a leggere, commentare, giudicare, scandalizzarsi.

Pochi giorni fa su La Stampa di Torino il giornalista Francesco Grignetti ha sostenuto che «in tutta evidenza Giorgia Meloni ha deciso e il suo partito esegue: l’informazione giudiziaria dovrà cambiare pelle perché a breve sarà impossibile pubblicare ordinanze di arresto o di perquisizione, sia in forma integrale che per estratto, pena multe e sanzioni draconiane per l’editore fintanto che si sarà nella fase delle indagini preliminari. Resta la possibilità del sunto da parte del giornalista». Ecco il passaggio fondamentale, che taglia le gambe a chi decidesse di far prevalere l’articolo 21 della Costituzione su tutto il resto («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure») e sorvolasse sul divieto di pubblicazione: le multe per chi trasgredisce agli ordini dell’autorità.

Le forze dell'ordine eseguono un'ordinanza di custodia cautelare
Le forze dell'ordine eseguono un'ordinanza di custodia cautelare
Le forze dell'ordine eseguono un'ordinanza di custodia cautelare

La richiesta

Il deputato Andrea Pellicini e il senatore Sergio Rastrelli di Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa al Governo, hanno chiesto che l’Esecutivo «applichi le misure previste dal decreto legislativo 231 sulla responsabilità amministrativa e penale delle società quando un mezzo di informazione violi il divieto di pubblicazione sugli atti giudiziari fino a una certa fase del processo». Si parla di multe che oscillano da un minimo di 25.852 euro a un massimo di 1 milione e mezzo di euro con la possibilità di infliggere sanzioni penali quali l’interdizione dell’esercizio dell’attività d’impresa, la sospensione o revoca di autorizzazioni e licenze, il divieto di stipulare contratti con la pubblica amministrazione, l’esclusione e revoca di finanziamenti, sussidi, contributi, agevolazioni. Si capisce bene che per l’editoria, già in forte crisi, una ritorsione simile significherebbe dover definitivamente chiudere. Questa è la vera “arma fine di mondo” studiata dalla politica (comoda a chi è in sella oggi e a chi lo sarà domani), non lo spauracchio del carcere ai giornalisti (altra punizione minacciata più volte in passato e oggetto di modifiche nel corso del tempo).

Questo è il punto: stringere le maglie sulle pubblicazioni, e dunque impedire a chi legge e si informa di scoprire meglio e con maggiore precisione quel che accade in Italia, serve solo a tutelare i soliti noti. Chi ha un posto di potere. Non i criminali comuni. «Dietro l’etichetta del garantismo e nascondendosi dietro la presunzione di non colpevolezza il governo si appresta a peggiorare ulteriormente la norma Costa dando ai giornalisti, come ormai ci ha abituato il governo, la manganellata di sanzioni economiche», ha reagito Alessandra Costante, la segretaria dell’Fnsi, riferendosi al deputato prima di Azione e poi ri-passato in Forza Italia (cioè Costa) che aveva proposto e ottenuto di vietare la pubblicazione con il copia-e-incolla delle ordinanze «per meglio garantire i diritti dei cittadini indagati».

Quotidiani
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La commissione

Per non essere fraintesi, poche settimane dopo l’approvazione in consiglio dei ministri il provvedimento è transitato alla commissione di Giustizia del Senato che a sua volta ha dato un parere sul testo ipotizzando, se possibile, un peggioramento delle conseguenze per chi lo viola, con un inasprimento delle sanzioni agli editori e ai giornalisti (ma attenzione, si precisa - generosamente - che il carcere dovrà essere evitato). Rendendo così di fatto sempre più difficile pubblicare il contenuto degli ordini di carcerazione. Atto ritenuto «necessario» per garantire «la presunzione d’innocenza di indagati e imputati». Sempre che non si tratti di poveri derelitti o ultrà.

I giornalisti

La novità vede contrari i giornalisti, con la segretaria (Costante) e il presidente (Vittorio di Trapani) della Fnsi che il 2 ottobre in commissione Giustizia alla Camera hanno parlato di un «ulteriore passo nella direzione della limitazione degli imprescindibili bilanciamenti fra poteri che caratterizzano uno Stato di diritto», di «un intervento finalizzato a smantellare quei contropoteri, in questo caso l’informazione, che rendono viva e vitale la democrazia» e di un «bavaglio che, più che tutelare la presunzione di innocenza, sembra voler stringere ancora di più le maglie della libertà di informazione e del diritto dei cittadini ad essere informati previsto dall’articolo 21 della Costituzione».

Mentre invece servirebbero «più trasparenza e più informazione, anche a tutela dei diritti dell'indagato», anche perché non è vero che le modifiche al Codice di procedura penale riprendono le richieste della Ue: «L’Europa pone obblighi e divieti non a carico della stampa, che anzi ne è esclusa, ma a carico dei rappresentanti delle istituzioni, politici, parlamentari. L'Europa non chiede di vietare la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Chiede di tutelare il lavoro dei cronisti, di difendere il ruolo dell'informazione, ad esempio, dalle azioni legali bavaglio. Su questo il Legislatore non fa nulla» ma, al contrario, «obbliga il giornalista a dare la notizia facendo una sintesi del provvedimento del giudici esponendolo al rischio di cause per diffamazione e a richieste di danni». Con l’aggiunta di «sanzioni pecuniarie spropositate».

Ed è contrario anche l’Ordine dei giornalisti perché «le ordinanze sono atti pubblici, non sono coperti dal segreto dell’indagine e trattano del momento in cui un cittadino viene privato della sua libertà. Non è un privilegio dei giornalisti quello di fornire notizie, ma un diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati correttamente di quanto accade». Sulla possibilità di pubblicare una sintesi, «è come chiedere a un cronista parlamentare di illustrare una legge senza citare una riga dei passaggi fondamentali, o di dare notizia del bilancio di una grande azienda senza riportare neppure un numero o raccontare una partita di calcio senza il risultato finale. Nella Direttiva europea, inoltre, si fa esplicito riferimento alla salvaguardia del diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media».

Il Palazzo di giustizia di Cagliari
Il Palazzo di giustizia di Cagliari
Il Palazzo di giustizia di Cagliari

Ma il segnale più chiaro su quanto sia controversa questa iniziativa è dato anche dalla reazione dell’avvocatura, mondo normalmente a favore di tutto ciò che possa legittimamente tutelare indagati e imputati. Per l’Unione delle camere penali se è «indubbio che nella cronaca giudiziaria l’indagato è troppo spesso presunto colpevole sino alla sentenza irrevocabile di assoluzione e che pertanto» è necessario «studiare rimedi che, senza compromettere il diritto costituzionale di informare e di essere informati, sappiano contrastare efficacemente questo tradimento della presunzione di innocenza». Ma è «altrettanto indubbio che la proposta di perseguire questo obiettivo introducendo un divieto di pubblicazione dell’ordinanza cautelare sino alla conclusione delle indagini o dell’udienza preliminare non sia né praticabile, né funzionale allo scopo». Perché? «Se il divieto fosse davvero funzionale al rispetto della presunzione di innocenza dovrebbe durare sino all’accertamento definitivo della colpevolezza», e invece sembra addirittura «controproducente. Non si comprende per quale ragione dovrebbe risultare meno pregiudizievole per l’immagine dell’indagato una sintesi giornalistica dei motivi che ne hanno determinato la custodia cautelare rispetto alla motivazione del giudice». Tanto più che il divieto di indicare pubblicamente come colpevole l’indagato fino alla sentenza definitiva è in carico all’autorità giudiziaria, «non al giornalista» e neanche al pubblico ministero, i cui atti «per loro natura puntano in genere a dimostrare la colpevolezza dell’indagato» e sono «liberamente pubblicabili». Di conseguenza «non è difficile» prevedere «rappresentazioni mediatiche che», prendendo spunto dalle richieste di arresto delle Procure, «diano delle ragioni che hanno indotto a restringere la libertà dell’indagato un quadro molto più stigmatizzante di quello che offrirebbe la pubblicazione dell’ordinanza, i cui contenuti sono rigorosamente e restrittivamente disciplinati dalla legge». Infine «l’impossibilità di riportare parti del testo dell’ordinanza finirebbe per rendere difficile contestare improprietà e gratuiti sensazionalismi».

Certo, la soluzione finale per gli avvocati sarebbe ancora più drastica: prevedere l’illiceità di qualsiasi forma di comunicazione pubblica che rappresenti implicitamente o esplicitamente l’accusato come colpevole. Ma questo è un altro discorso. Resta la volontà esplicita di chi sta al potere di ridurre sempre più la possibilità di informare quando si tratti di notizie sconvenienti per chi sta al potere.

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