Negli Stati Uniti lo chiamano “The Big Quit”, e riguarda molti milioni di persone. Fuga dal lavoro: un fenomeno esploso ai tempi della pandemia, quando tante persone hanno lasciato il posto, con le più svariate motivazioni. Anche in Italia sta succedendo: secondo i numeri elaborati dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro nei primi nove mesi del 2021 sono state 1 milione e 81mila le cessazioni volontarie per cause diverse dal pensionamento, con un incremento del 13,8% rispetto al 2019.

“Io vedo il lato positivo”, dice il sociologo dell’Università di Cagliari Marco Zurru. “Innanzitutto perché il mercato del lavoro italiano è stato per troppo tempo fossilizzato, con poca o nessuna mobilità interna, e questa rigidità non fa bene, in linea di massima, né allo stesso mercato del lavoro né ai lavoratori, che fino a oggi, quando trovavano un posto, se lo tenevano per sempre”.

Lo studio evidenzia che nelle professioni ai vertici della piramide professionale, tecniche e ad elevata specializzazione, tra 2019 e 2021 il numero dei “dimessi” è cresciuto rispettivamente del 22,4% tra le prime e del 19,4% tra le seconde. La maggioranza lo ha fatto per cambiare lavoro: a fine del terzo trimestre aveva un’altra occupazione il 65,8% dei tecnici e il 64,6% delle professioni a elevata specializzazione. Complessivamente questi hanno contribuito al 17,9% delle dimissioni avvenute nei primi nove mesi dell’anno. Per quanto riguarda i laureati, tra cui si è registrato l’incremento più elevato di dimissioni (17,7% contro il 12,9% di chi ha un diploma di istruzione secondaria superiore e il 13,3% un titolo inferiore); anche in questo caso la scelta è attribuibile alla transizione verso un’altra occupazione (69,2%).

“Il fatto che le figure altamente professionalizzate si spostino, e ce lo dice la ricerca quando evidenzia che in alta percentuale trovano un altro lavoro nel giro di alcuni mesi, significa che queste persone vanno a occupare posizioni per loro più vantaggiose”, prosegue Zurru. “E questo aspetto di flessibilità è positivo, va valorizzato e incentivato, così come accade in altri Paesi”.

Prosegue il sociologo: “Diverso il discorso delle posizioni più in basso, dei lavoratori che abbandonano e ufficialmente non vengono assunti da nessuna parte. Prima di tutto perché spesso entrano nell’economia sommersa, dunque sfuggono alle rilevazioni, poi perché da un po’ di tempo a questa parte la legislazione italiana ha introdotto per la prima volta uno strumento che sostiene i disoccupati. Il reddito di cittadinanza entra in competizione con le paghe basse, e spesso vince”.

Riflette ancora Zurru: “Certo, parliamo di posizioni caratterizzate da un ampio turn over, anche perché spesso sono ricoperte da studenti. Però, per troppo tempo certe categorie di lavoratori hanno dovuto accettare condizioni retributive infami, quindi, a volte è naturale che scelgano il reddito di cittadinanza, anche se magari è una cifra un po’ inferiore a quella del salario. Gli imprenditori che si lamentano perché non trovano camerieri, lavapiatti, insomma, soprattutto lavoratori nel settore turistico, dovrebbero ragionare su quest’aspetto. E’ un segnale, un messaggio: miglioriamo la qualità del lavoro, diamo le giuste condizioni”.

Anche i Consulenti del lavoro rilevano che il “Big Quit” è un fenomeno abbastanza nuovo per la realtà italiana, “la cui portata ancora non restituisce un vero e proprio cambio di passo nell’approccio al lavoro”. Inoltre, “a determinare questo aumento dei numeri, contribuisce, in primo luogo, la ripresa occupazionale che offre opportunità anche a chi vuole cambiare lavoro, soprattutto a quei profili tecnici e specializzati, rispetto ai quali le aziende stanno incontrando difficoltà crescenti di reclutamento”. Ma non vanno sottovalutate anche le conseguenze che la crisi sanitaria e poi economica ha avuto su molti lavori.

“Condizioni occupazionali sempre più precarie, riduzione delle retribuzioni, deterioramento delle relazioni lavorative, possono avere inciso su una scelta di vita che, per alcuni, sembra essere stata compiuta in assenza di un’alternativa: il 44,7% delle persone che si sono dimesse nei primi sei mesi dell’anno, a fine del terzo trimestre 2021 non aveva un contratto di lavoro attivo”.

Sullo sfondo – aggiungono -  emerge un nuovo approccio verso il lavoro, orientato a trovare un migliore equilibrio tra “senso” e reddito e tra vita privata e professionale, che ha innescato aspettative diverse tra gli occupati, stimolando una maggiore mobilità. Infine, l’accresciuta disponibilità di sostegni al reddito, mai generosi come nell’ultimo biennio, potrebbe avere contribuito a determinare l’uscita volontaria dal lavoro regolare.

Da considerare anche una crescita della mobilità interna del mercato favorita dal traino di alcuni settori, edilizia in primis e dalla ristrutturazione di altri (la manifattura), che favorisce i processi di ricollocazione professionale di molti lavoratori.

Il settore delle costruzioni, infatti, dove è avvenuto il 9,7% delle dimissioni, ha registrato, tra il 2019 e il 2021, una crescita del 47,1% del fenomeno. “L’ottima fase di ripresa che vive il comparto si accompagna infatti non solo all’aumento delle dimensioni delle imprese, ma anche alla difficoltà di recupero di manodopera, innescando meccanismi di concorrenza di cui si stanno avvantaggiando i lavoratori”:

Nelle attività professionali, scientifiche e tecniche e nel comparto sanità e assistenza sociale, si registra un incremento significativo del fenomeno (rispettivamente del 20,2% e del 33%), accompagnato da un elevato tasso di ricollocazione dei lavoratori.

Tra le professioni operaie ed artigiane, specializzate e non, si concentra una quota significativa di lavoratori che hanno lasciato l’occupazione (complessivamente il 25,2% del totale). Anche in questo caso, l’elevata quota di dimessi che risulta occupata a fine del terzo trimestre (57,6% e 62,9%) può essere ricondotta alla spinta del comparto costruzioni ma anche alla positiva fase di ripresa del manifatturiero.

Nelle professioni non qualificate, solo il 49,2% risulta con un’altra occupazione dopo tre mesi; mentre nel settore del commercio e ricettivo–ristorativo, nei primi nove mesi del 2021 ci sono il 13,4% e il 12,6% dei lavoratori che si sono dimessi. Sono comunque – evidenzia lo studio - settori ad elevato ricambio occupazionale, spesso di “transizione” per molti giovani alle prime esperienze lavorative.

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