La fine di tutto è lì. I vivi sono sepolti. I sepolti sono vivi. Infilati in celle grigie a più livelli che sembrano gli scaffali di quei magazzini occidentali di vendita all’ingrosso. Parallelepipedi di ferro, perché ogni movimento, anche il più piccolo, deve fare rumore. Come se annullare i diritti avesse bisogno di un suono in dolby.

Gli assassini del Salvador hanno dai dodici anni in su. Era febbraio 2023 quando le immagini fecero il giro del mondo. Il Governo di Nayib Bukele inaugurò la prigione di Cecot. Centro di confinamiente del terrorismo. Un carcere di massima sicurezza, dove i muri che si susseguono sono grossi sessanta centimetri. Il penitenziario sta a Tecoluca, 74 chilometri a sud-est della capitale San Salvador. Un posto segreto dove possono entrare solo le guardie carcerarie che lavorano col passamontagna indosso. Le torri di controllo sono diciannove. A Cecot si alternano 250 agenti della Polizia nazionale e 650 militari dell'Esercito. Tutti armati. I familiari non sono ammessi, le visite degli avvocati nemmeno. Le recinzioni sono elettrificate a 15mila volt.

El Salvador occupa 21.041 chilometri quadrati (poco meno della Sardegna) sul lato opposto del Mar dei Caraibi. Il Guatemala a nord, l'oceano Pacifico a ovest, l’Honduras a est. Per decenni l'hanno fatta da padrone le gang. Settantamila e più affiliati, e due grandi organizzazioni criminali: Ms13 e Barrio-18. Il Paese ce l'avevano in mano loro. Con tanto di record mondiali: il più alto numero di omicidi in un giorno, sessantadue; il maggior tasso di omicidi sulla Terra. Interi quartieri blindati, dove nemmeno la polizia aveva accesso.

Nayid Armando Bukele Ortez – 24 luglio 1981, il cappellino alla Jovanotti, un profilo sui social, megalomane conclamato – il 1° giugno del 2019 inizia il proprio mandato nel Palazzo presidenziale. La gavetta politica cominciata facendo il sindaco di Nuevo Cusatlán. Vince il primo mandato promettendo la pacificazione del Paese. Con i criminali dialoga. Scarcera i boss più importanti promettendo una vivibilità quotidiana che invece non arriva. Ma Cecot è in costruzione. Poi  il taglio del nastro. La prima domenica di febbraio, una decina di giorni fa, Bukele aggancia l'elezione bis con l'85 per cento di consensi. È il capo assoluto nel Salvador, dove adesso si può camminare in strada col cellulare in mano senza essere derubati. Ma i diritti sono morti. Sepolti vivi anche quelli.

A Cecot si deve indossare una divisa. Maglietta e pantaloni sono bianchi. C'è spazio per 40mila detenuti. Quando un anno fa il Governo diffuse le immagini sul trasferimento dei prigionieri, si parlò di dodicimila ingressi. Volti di giovani e giovanissimi. Ai piedi le Crocs, chissà taroccate, bianche anche quelle. Di scuro solo i tatuaggi sulla pelle dei boss. Criminali grandi e piccoli, importanti e non, ma con almeno un omicidio nel curriculum.

Quando si entra, chi è già dietro le sbarre assiste all'ingresso dei nuovi. Alla pubblica gogna. Il direttore del carcere, ad alta voce, chiede il nome dei reclusi in arrivo. Hanno le manette ai polsi. I piedi slegati da poco. Devono levarsi la maglietta, perché tutti vedano i loro segni sulla pelle. Ovvero l'appartenenza a questa o quella gang.

A Cecot, il più grande penitenziario di tutta l'America Latina, non si vede il giorno. E nemmeno la notte. Si vive rischiando di impazzire. Una luce neon è il solo monotono spettacolo di giornate sempre uguali. La punizione di Bukele.

Ai detenuti viene rasata la testa ogni cinque giorni. Loro sono i pandilleros. I componenti delle gang. I malavitosi. Da Cecot scappare è impossibile. Ai reclusi non è consentito nemmeno parlare tra di loro. Quando a febbraio 2023 si aprirono le porte dell’inferno, erano tutti scalzi e a petto nudo. Indossavano solo pantaloncini bianchi. Come fossero scatolette, vennero quasi incastrati uno dentro l'altro. Le mani sopra la testa, lo sguardo obbligatoriamente basso. «Fuori da Cecot erano temibili, scatenavano terrore e morte, adesso irradiano tristezza», si legge nel report pubblicato da El País , il quotidiano spagnolo che ha appena raccontato l’errore. Bukele ha riaperto le porte, quello è il suo vanto da esibire al mondo intero.

Nel penitenziario si mangia con le mani. Non sono consentite nemmeno le posate di plastica. Sarebbero troppo costose. E forse pericolose pure quelle. Bukele non vuole dare nemmeno l'arma della normalità a questi condannati che potranno uscire in carcere solo da vecchi, se ce la faranno a sopravvivere. Se non andranno ad allungare l'elenco delle morti sospette. Una lista che le Ong internazionali provano a portare all'attenzione del mondo. Invano. Inutilmente.

Per capire chi è il presidente del Salvador basta annotare un dato: da quando è al potere, Bukele per sedici volte ha proclamato lo stato di emergenza. Il suo partito si chiama Nuevas Ideas. Nuove Idee. Ma per ora non se ne vedono. Il millennial del Salvador non ha mai nemmeno sentito il bisogno di rispondere agli appelli dell'Onu per una gestione democratica del potere. A Tecoluca è buio pesto. Notte fonda.

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