Erano una squadra, nonostante tutto. Divisi nella vita, non sempre in sintonia gli uni con gli altri (anzi), ma comunque un simbolo del tennis italiano. Forse, addirittura, il simbolo. La Squadra è la bellissima serie tv su Sky (firmata Domenico Procacci) che racconta le leggendarie imprese di Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta, Tonino Zugarelli che per cinque anni, tra il 1976 e il 1980, dominavano il tennis mondiale in Coppa Davis. Le sei puntate sono un capolavoro perché mescolano, in un vortice di ricordi, sport e politica, tv, storie personali e versioni discordanti di quelle stesse storie. L’unica verità inconfutabile è che alla fine degli anni Settanta la squadra di tennis da battere in Coppa Davis era l’Italia. Per ragioni diverse, in quei cinque anni raggiunsero la finale quattro volte, vincendo solo nel 1976 contro il Cile, a Santiago, in casa del dittatore Augusto Pinochet (che tre anni prima aveva deposto il presidente democraticamente eletto Salvador Allende). Per anni, quella è stata una vittoria di cui vergognarsi. Il Partito comunista sollevò la questione addirittura in Parlamento, Domenico Modugno scrisse una ballata in favore del boicottaggio e la cantò a un comizio organizzato dalla comunità cilena in Italia. Ugo Tognazzi disse invece in un’intervista: «Noi in Cile esporteremo automobili, sicuramente cinema. Ora, perché proprio Panatta non lo vogliamo esportare, e Bertolucci, Barazzutti e Pietrangeli»?

Fenomeni. Quella straordinaria squadra era formata da cinque pezzi non certo facili, sempre Panatta e Bertolucci da un lato e Barazzutti e Zugarelli dall’altro, in mezzo (nel ’76 e nel ’77) in veste di capitano non giocatore una leggenda vivente del tennis, Nicola Pietrangeli. Ognuno con il suo carattere, i suoi ricordi, le sue verità. Compresa quella sulla vicenda più controversa, la maglietta rossa della finale di Santiago (già svelata nel 2009 dal docufilm di Mimmo Calopresti). Un gesto simbolico, ideato da Panatta che nel sabato di doppio propose a Bertolucci di indossare due magliette rosse, come il colore dei fazzoletti che le donne cilene usavano per denunciare la scomparsa di padri, mariti e figli per mano del regime.

La serie. La serie racconta una squadra divisa, frammentata, con al suo interno rapporti difficili, conflittuali, sia tra i giocatori che con chi li guidava e allenava. Una squadra, una nazionale, che nel momento in cui aveva la vittoria a portata di mano veniva osteggiata e combattuta nel suo stesso Paese. E nonostante tutto, in quegli anni era comunque la squadra più forte del mondo. Le finali raggiunte ma poi perse sono nel ’77 contro l’Australia, nel ’79 contro gli USA e nell’80 contro la Cecoslovacchia. Divertiti e un po’ beffardi, i cinque moschettieri sono oggi tutti canuti ma conservano lo spirito battagliero di quegli anni. Del resto è noto che non tutto andava liscio nel mitico Dream Team del tennis italiano, ma racconta Adriano Panatta “insieme abbiamo condiviso un periodo meraviglioso per quell’impresa di Santiago ma anche un percorso importante e probabilmente oggi irripetibile”.

Il thriller. Nella serie si ride, si piange, si rimpiange un tennis che non c’è più. C’è il tennis, certo, ma c’è anche molto altro. C’è l’intreccio politico, come detto, ma non manca neppure il thriller cospirativo, con la squadra che nel ‘78 decide di “esonerare” Pietrangeli, l’uomo che rese possibile il trionfo di due anni prima col suo lavoro di mediazione. Il disegno di quell’incontro in un hotel di Firenze, tra troppi silenzi, si confonde nelle versioni divergenti dei protagonisti. Per Pietrangeli, semplicemente, quello di 44 anni fa è ancora oggi un tradimento.

La letteratura del tennis sul grande schermo ha tanti precedenti: alzi la mano chi non ha visto (e apprezzato) “Borg McEnroe” di Janus Metz (anno 2017). Oppure basta citare il titolo del libro di David Foster Wallace: “Il tennis come esperienza religiosa”. Non occorre altro. Ma “Una squadra”, va detto, è perfettamente all’altezza. 

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