Il tennis di Binaghi e il modello Sardegna
Il presidente cagliaritano della Fitp a tutto campo, dall’effetto Sinner alla inarrestabile ascesa del padel: «Il lavoro non è ancora terminato»Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
L’obiettivo è lì, distante ma non troppo. Si chiama calcio. Armato di racchette varie – tennis, padel e pickleball, per le palline fate voi – l’ingegnere va alla conquista del primato nazionale. Il resto – il numero 1 del mondo, la coppa (del mondo) di uomini e donne, le “Finals” in Italia – è già nella vetrina del suo ufficio. Una incredibile, ma programmata ascesa. Da Cagliari, Tennis club di Monte Urpinu, al trono nazionale e perché no, mondiale: «A Parigi, appena Sinner è diventato numero uno del mondo, ho anche pensato di dire a tutti “arrivederci e grazie”, il mio compito poteva dirsi concluso nel momento migliore». E invece? «Il lavoro non è ancora finito».
Angelo Binaghi ha appena corso da casa sua, Cagliari zona Amsicora, fino al mare e ritorno. Compirà fra pochi giorni 64 anni, gli ultimi 24 li ha trascorsi anche a Roma, Federazione italiana tennis, con una “p”, quella del carroarmato padel, a comporre l’acronimo esatto. Guida uno sport – diventato popolare – nel momento di massima crescita, un razzo che continua a salire. Appare intoccabile, le critiche sono feroci – dittatura, carattere difficile, scelte che non piacciono – ma non sembra preoccupato.
Binaghi, ma non è che state crescendo un po’ troppo?
«Siamo una tipica azienda malata di troppa crescita. Ed è un male, perché in determinati settori – prima il padel e ora il tennis grazie a Sinner – si procede troppo rapidamente, tutto questo non consente alla struttura federale di adeguarsi. E anche alla mentalità delle nostre 4 mila società di andare alla stessa velocità. Sono processi che, in tutti i settori economici, per essere sani ed esprimere il proprio potenziale, dovrebbero andare più lenti. Ma come si fa a suggerire a Sinner di vincere di meno?».
Tornando indietro, rifarebbe il presidente della Fitp?
«Direi di sì. Molto, molto faticoso, anche troppo. Pochissimi si ricordano della situazione che abbiamo trovato appena entrati. Dal punto di vista economico, morale e sportivo c’erano le macerie. Quando gestisci un’azienda mi hanno insegnato che vale la differenza fra quello che lasci e quello che hai trovato. Oggi siamo nel momento più alto del nostro sport, un momento irripetibile e lo dicono anche i dati: abbiamo il numero 1 e la numero 7 al mondo, nessuna nazione ha questa combinazione, mentre nella “race”, ovvero la classifica con i risultati dell’anno solare, ci presentiamo a Wimbledon e alle Olimpiadi con i numeri 1 nel singolo e doppio maschile, il doppio delle donne è numero 2 e la Paolini è al quinto posto. Come squadra, abbiamo la Davis in mano e il secondo posto nella King Cup. Le altre federazioni ci invidiano non tanto Sinner, ma il resto degli
azzurri che sono lì, in alto nelle classifiche mondiali».
Quanto conta la “Federbinaghi” in questo straordinario momento?
«Conta l’impostazione, quella di una società sportiva come il Tennis Club Cagliari, di cui abbiamo esportato il modello, una società aperta al pubblico che promuove quotidianamente lo sport, con gli istruttori che frequentano le scuole dell’obbligo per diffondere questo sport fra i bambini, educandoli ai corretti stili di vita e che contemporaneamente svolge in città una funzione importantissima per la crescita dei nostri giovani – così come Alghero, Olbia e la Torres a Sassari – con una scuola agonistica di alto livello, dove vengono educati al rispetto delle regole e dell’avversario e vengono spinti a cercare di migliorarsi tutti i giorni. E che contestualmente – creando nuova occupazione – utilizza l’impianto per organizzare grandi manifestazioni sportive che hanno grande impatto sul sistema economico locale e fanno conoscere Cagliari e la Sardegna nel mondo. Questo è il modello nel quale io sono nato e che cerchiamo di diffondere nelle 4 mila società del tennis italiano. Le altre federazioni, i grandi giornali stranieri, le tv più importanti del mondo ci chiedono di questo modello Sardegna, quale sia il segreto: è ciò che ho vissuto da ragazzo e sulla base del quale io e un gruppo di amici abbiamo gestito la Federazione».
Cose belle: l’Italia sbarca a Wimbledon favorita nel singolo e nel doppio maschile. Ma non le sembra un sogno?
«Sì, una cosa che non avremmo mai immaginato neanche nei momenti migliori».
Cose brutte: migliaia di lamentele per i prezzi e l’organizzazione al Foro italico.
«L’organizzazione è sempre stata portata a esempio a livello mondiale ed è proprio grazie a questa che ci hanno affidato le Atp Finals. L’altra si chiama operazione Robin Hood: far pagare “molto” a quelli che scelgono di venire a vedere il tennis solo all’ultimo momento se lo spettacolo merita, e far pagare “poco” a chi, da tesserato e autentico appassionato, compra il biglietto tanti mesi prima e ci sarà sempre. E con quei soldi di chi ha pagato “molto” noi riusciamo anche a mandare i nostri istruttori in tutte le scuole dell’obbligo per insegnare gratuitamente il tennis style a ragazzi che altrimenti non si avvicinerebbero mai ai nostri sport. Saranno oltre 600 mila quest’anno, frequenteranno cicli di quindici lezioni, in parte all’interno dei nostri club, con la gara finale. Tennis e padel. E investiremo ancora in questa direzione».
Cose belle: spunta un giocatore alla settimana, l’effetto Sinner stimola nella testa degli altri azzurri la voglia di emulazione?
«Sì, in questo hanno aperto la strada le ragazze. Prima che la Schiavone vincesse a Parigi o la Pennetta gli Us Open, o le Fed Cup, si diceva che il tennis non fosse uno sport adatto agli italiani. Beh, oggi direi che quelle parole fanno sorridere».
Cose brutte: giocare a tennis o a padel costa troppo, ti devi affiliare e per questo crescono a dismisura i tesserati…
«In ogni sport ci si deve tesserare, che io sappia, da noi costa pochi euro all’anno. Il tennis costa molto? Falso, le ultime statistiche ci mettono in linea col calcio o con le palestre. Se sei un ragazzino dotato, la Federazione ti aiuta dagli 11, 12 anni a girare il mondo e fare tornei. Aggiungo che da noi c’è un numero enorme di persone che giocano e non sono ancora tesserate e che presto censiremo. Il tennis va venduto agli sponsor e alle amministrazioni pubbliche per quello che vale: quest’anno supereremo il milione di tesserati. E dal primo gennaio le società sportive non pagano più per fare attività, sia per le squadre che per i tornei, lo abbiamo voluto per incominciare a trasferire parte di questo “benessere” creato dalla gestione centrale al nostro azionariato popolare, le società sportive».
Le Finals in Italia, gli Internazionali che raddoppiano, i traguardi dei singoli, il padel che sembra inarrestabile, come si gestisce un passaggio storico come questo?
«Una gestione complessa, come ho detto. Prima avevamo dieci dipendenti, oggi sono 240, ne vedo di nuovi tutti i giorni nei corridoi. Abbiamo dovuto perfino acquistare una nuova sede a Roma, dove ci stiamo gradualmente trasferendo. Si gestisce facendo salti mortali e difendendo i nostri atleti da chi si vorrebbe appropriare dei loro risultati per averne dei vantaggi personali».
Alla festa per il ritorno di Sinner, a Sesto, lei era in un angolo, con un sorriso che le si vede raramente. Che rapporto c’è con lui?
«In Italia siamo sempre stati poco fortunati nel tennis. Senza mai avere grandi campioni, o magari grandi esempi. Anche negli altri sport, vedi Tomba o Rossi, abbiamo goduto di quelle figure seppure venate da qualche intemperanza, o stravaganza. E nel tennis, senza fare nomi, ci sono state stelline con un temperamento diciamo bizzarro. Il vero fenomeno Sinner è questo: un minuto dopo aver vinto uno Slam, o magari aver perso una finale, lui davanti al microfono dà una lezione al mondo intero di come ci si comporta, come solo un grande esperto di comunicazione riuscirebbe a fare. Quello che penso di lui l’ho detto a tutti, sempre, dal presidente Mattarella in giù fino al più piccolo giornale locale».
Una giornata da presidente. A che ora comincia?
«Non finisce mai».
Entriamo nel campo di calcio, lei è un tifoso del Cagliari. Come giudica la separazione fra il club e Ranieri? Come si poteva gestire una questione così delicata?
«Ranieri avrebbe meritato prospettive che non ha visto. Nel calcio professionistico contano i soldi e poco altro. E con tutto il rispetto che ho per il bravo Giulini e per quello che riesce a fare, se ci fossimo trovati di fronte una proprietà araba o cinese – e con questo non voglio dire che sia un bene – con un’impostazione di squadra magari per la Champions League, penso che l’allenatore avrebbe fatto pensieri differenti. Ma Ranieri, più di quello che ha fatto con questa squadra credo sia impossibile. Un po’ è quello che ho pensato io nell’attimo dopo in cui Sinner è diventato il primo del mondo: andarmene in quel momento, nessuno avrebbe fatto meglio di me. Ma io ho già i miei “arabi”, ovvero altri cinque anni di Finals in Italia fino al 2030, e questo devo riuscire a raggiungere: ho il Governo che ha visto i numeri e ci crede. E vincerò, me le prenderò, anche per far giocare a Sinner il torneo indoor più importante dell’anno a casa sua. Dando alla Federazione una prospettiva di lungo periodo dal punto di vista sportivo ed economico».
Lei “gestisce” un ct come Volandri, persone educata, elegante, pacata. Con uno come Spalletti lei ci andrebbe d’accordo?
«No. Apprezzo molto i dirigenti e gli allenatori positivi e riservati, che non fanno polemiche e che non vanno alla ricerca di visibilità per fare i protagonisti. Capisco che andremo d’accordo già dal modo con cui li vedo camminare, mi piace l’understatement».
Torniamo al tennis: per i giovanissimi di talento, e che hanno bisogno di andare in giro a giocare, c’è lo scoglio delle spese. La Federazione va incontro alle famiglie?
«Sì, se sei un ragazzo che ottiene ottimi risultati, noi ti siamo a fianco e non ti facciamo mancare niente di quello che serve per diventare un campione».
Si sta fregando le mani perché all’orizzonte ci sono già dei nomi che corrono, diciamo che il dopo Sinner lo state già programmando…
«Il problema, a parte la fortuna, è garantire che il sistema continui a crescere, nei valori, nell’entusiasmo, nella base. Stiamo vivendo una generazione importante, è vero, ma non dobbiamo fermarci. C’è una tale abbondanza che io non conoscevo Darderi fino a quando non ha vinto un torneo Atp 250 in Argentina».
Sta lontano dai social: che opinione ha di questa irresistibile voglia di mostrarsi e comunicare qualsiasi cosa?
«Io non so quasi cosa siano i social. Ma hanno cambiato il mondo, credo anche in peggio. Per esempio, la vita politica, oggi c’è un’esasperazione nei toni intollerabile, la selezione della classe politica è peggiorata, così come la qualità, anche per colpa del peso che diamo ai social».
Correrà per diventerà presidente del Coni?
«Perché, cosa ho fatto di così grave?».
Due o tre sogni, che poi dalle sue parti diventano obiettivi, per l’immediato futuro?
«Dare stabilità alla mia Federazione. E lanciare il pickleball, dieci milioni di praticanti negli Stati Uniti, costi ridotti e quindi la possibilità di giocare nelle scuole e nei parchi. Ci credo».
Enrico Pilia