Ciclismo, così è cambiata la geografia del pedale
Le prime gare si disputavano su quegli stessi percorsi che avevano ospitato i ritiri delle squadrePer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Prima che i tiepidi raggi si sole della primavera consentissero di calcare le ruvide e, comunque, fredde strade del Nord, spettava all'Italia, più che al Sud della Francia e alla Spagna, l'apertura della stagione ciclistica internazionale. Le prima gare si disputavano su quegli stessi percorsi che avevano ospitato i ritiri delle squadre, rappresentanti di un movimento nel quale l'Italia faceva la parte del leone. Per il numero e la qualità delle squadre e dei corridori; per la tradizione e la scuola tecnica; per le competizioni divenute negli anni classiche prestigiose. Così, le prime manifestazioni lambivano il mare. In Toscana (soprattutto in Versilia) e in Liguria, e più tardi anche al Sud, ci si ritrovava per le prime pedalate di preparazione, ce avevano lo scopo di mettere chilometri nelle gambe, smaltire gli etti accumulati durante la pausa invernale, sciogliere le gambe con i lavori di agilità. Niente di più specifico, perché a quei tempi la rifinitura si faceva in gara. Tutti (più o meno) facevano le stesse gare e tutti si presentavano al via della stagione nelle stesse condizioni. La forma si affinava in gara. A Donoratico o Laigueglia si correva d'istinto, stringendo i denti per mettere a punto la condizione per la Milano-Sanremo, la Classicissima dei Fiori che annunciava la primavera e l'inizio della stagione delle Classiche.
Il ruolo della Sardegna Negli anni Cinquanta, in questo scenario fece il suo ingresso la Sardegna. Per un quarto si secolo, sino ai primi anni Ottanta, il Giro di Sardegna, ideato da Franco Pretti, recitò un ruolo-chiave in questa fase della stagione ciclistica. Si correva nell'arco di una settimana, accanto alla classica in linea (Sassari-Cagliari o viceversa a seconda degli anni) nata nel 1948. Cinque, sei, a volte anche sette tappe, non sempre tutte sul territorio isolano. Spesso si partiva dalla Penisola (Lazio, Toscana, Campania, perfino Piemonte), poi in nave si sbarcava a Cagliari, Olbia o Porto Torres per le tappe sarde. In chiusura la classica. Era un eccellente rodaggio per i campioni. Sì, perché quelli che partecipavano erano campioni, i migliori in circolazione. Italiani e belgi sono i più presenti in un albo d'oro punteggiato di stelle del firmamento ciclistico. Basti per tutti il nome di Eddy Merckx. Interrotto nel 1983, il Giro ebbe un primo rigurgito nelle edizioni 1996 e 1997, prima riportate in vita, poi affossate dai finanziamenti pubblici concessi e successivamente negati. Una seconda resurrezione, quella del 2009-2010-2011, attende ancora un seguito. Nel solco di una tradizione pregiatissima, l'ultimo vincitore è un corridore che ha segnato un'epoca: Peter Sagan.
L'allargamento dei confini Negli ultimi trent'anni, il ciclismo ha in modo progressivo e inarrestabile allargato i propri confini, su un piano duplice. Quello degli interpreti, che ormai provengono da un altissimo numero di Paesi, e quello delle manifestazioni. E se fino agli anni Ottanta erano rari i casi di bravi professionisti che non fossero europei (Italia, Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Svizzera, Germania erano le nazioni dominanti), a partire dagli anni Novanta il panorama si allarga, comprendendo, per esempio, Nazioni che avevano tradizione ma che erano rimasta ai margini per ragioni geografiche (Stati Uniti e Australia) o politiche (Russia e paesi dal Patto di Varsavia, sino ad allora confinati nel dilettantismo). Un processo irreversibile che ha successivamente investito il Sudamerica (e non solo la Colombia) e l'Africa, a cominciare dal Sudafrica, oltre al Medio Oriente che, per tradizione, aveva comunque una solida scuola di pistard (Giappone). La presenza di corridori trascina l'interesse dei tifosi, quindi degli sponsor, quindi dei governi. Tutti fattori che suggeriscono l'organizzazione di manifestazioni che servano a promuovere il ciclismo in quei Paesi e, soprattutto, le bellezze paesaggistiche e il patrimonio culturale di quei Paesi nel mondo.
La situazione attuale In questi giorni si corre in Sudamerica e soprattutto Australia (oltre che in Africa). La geografia del ciclismo è cambiata e con essa è cambiata l'organizzazione del calendario. Sostanzialmente, le corse per professionisti sono suddivise in livelli, il più alto dei quali è rappresentato dal World Tour. Nato sulle ceneri della Coppa del Mondo (circuito però composto soltanto da classiche di un giorno), inizialmente denominato Pro Tour e limitato a una ventina di eventi anche a tappe, compresi i tre Grandi Giri (Giro d'Italia, Tour de France, Vuelta a España), oggi è stato molto allargato, per ragioni più commerciali che squisitamente sportive. Accanto a questa sorta di "Serie A" del pedale, ci sono poi - un po' come avveniva per la Coppa Davis - i circuiti secondari, a carattere continentale. La collocazione delle nuove gare, quelle nate in tempo più recenti, è avvenuta sulla base degli spazi lasciati liberi dalle gare tradizionali superstiti, dato che molte continuano (soprattutto in Italia, per mancanza di risorse) a morire. Il resto lo hanno fatto le esigenze geografiche o climatiche.
Le nuove frontiere L'apertura, mentre da da noi è pieno inverno, avviene quindi agli Antipodi, dove è estate. Si corre il Tour Down Under in Australia (gara World Tour), ma anche il Tour de San Juan in Argentina. Mentre un febbraio che ci si augura sempre sia clemente, vede le prime corse europee (a Maiorca, sulle coste Spagnole e in Francia, oltre che in Italia), ci si sposta verso i Paesi in cui il clima permette le corse. In Colombia, quest'anno, debutteranno Fabio Aru (che lì, in altura, svolgerà anche l'ultima parte di preparazione) e altri big. Altri attenderanno l'Uae Tour, il Giro degli Emirati Arabi Uniti. E qui entriamo in un altro aspetto della questione.