Quanto è orgoglioso di essere definito “mister Salvezza”?

(Serio). «Per nulla».

Come, come?

«Talvolta è persino più facile. Arrivi perché le cose vanno male, le aspettative sono a zero, di peggio non si può fare, si crea una chimica nuova, una solidità di intenti dentro lo spogliatoio, che prima non c’era».

Però è una medaglia che pochi possono esibire, quella delle cinque salvezze “impossibili” raggiunte in A.

«Un giorno, Enzo Biagi chiese a Gianni Agnelli: “Si considera un sovrano senza corona?”. Lui gli rispose così: “Noi uomini della Fiat abbiamo tre principi. Uno: non perdiamo tempo ad ascoltare il parere degli altri. Due: non ci prendiamo mai troppo sul serio; ma - tre - prendiamo tremendamente sul serio quello che facciamo”. Ecco, se guardi la mia carriera scopri che le stagioni in cui sono subentrato sono meno della metà. Io sono passato da Lumezzane a Livorno, a Crotone, a Torino, Genova e Udine, allenando con relativa tranquillità. A parte Torino, dove già sapevo che non saprei potuto restare, lottavo per ripartire una volta conquistata la salvezza. L’ho fatto a Salerno: fui confermato, e quell’anno la Salernitana non è stata mai in zona retrocessione».

Morale della favola?

«Dopo la mia carriera da calciatore, ho passato più tempo ad allenare sereno in Serie A, che impegnato nelle salvezze impossibili. Per questo l’etichetta di “Uomo dei miracoli”, anche quando può sembrare utile, o lusinghiera, non mi interessa».

Mi ha colpito la sua partita contro la Roma, ultima campionato. Per salvarsi l’Empoli poteva solo vincere, e lei, fino all’ultimo minuto di recupero, ripeteva calmo: “C’è tempo… c’è tempo…”. Era matto, presuntuoso, o aveva la palla di vetro?

(Ride di gusto). «Ero lucido. Non aveva senso preoccuparsi di cosa poteva succedere: io avevo già lavorato, i ragazzi anche, potevo solo ottimizzare quel lavoro dando ai miei le indicazioni giuste. Ma quando arrivi all’ultima partita, all’ultimo punto, all'ultimo minuto, tu sai già che percorso hai fatto. Solo quello conta».

Potevate anche perdere, però.

«Ah, certo. Per questo so che chi retrocede per un punto non è mai peggiore di chi si salva per uno».

Davide Nicola, classe 1973, ama spiazzare. Il suo marchio di fabbrica sono gli inconfondibili capelli lunghi. Nella sua prima intervista della stagione racconta la sua storia, i suoi segreti, la sua filosofia: «Scoprirete che ho una sola ambizione. Migliorarmi sempre».

Cosa voleva fare da piccolo Davide Nicola?

«Ho iniziato a giocare a calcio tardi, perché quando ero bambino non esistevano i telefonini».

Sa che mi sfugge il legame?

(Sorride). «Non è immediatamente intuibile ma esiste, è questo. Sono nato nel 1973, e fino a dieci anni mi piaceva una sola cosa: correre».

Correre come?

«Correre e basta. Sono nato a Luserna San Giovanni, un paesino di settemila abitanti in val Pellice, una zona di prima montagna vicino a Torino. Il mio paese è però Vigone, a sud ovest di Torino. Uscivo di casa correndo e iniziavo ad andare da un paese all’altro, spesso solo per il gusto di spingermi sempre più lontano».

Perché?

«Mi piaceva il vento sulla faccia mentre corri, l’idea di libertà che istintivamente ti comunica».

E i suoi genitori?

«Ecco il punto. Ero l’unico figlio maschio, ho due sorelle, una più grande e una più piccola. Una famiglia molto affiatata, fondata sulla condivisione, e così, quando uscivo per questi miei giri, mia madre era sempre in ansia».

Lo credo bene.

«Nel 1983 non esistevano ancora i telefonini. Ogni volta lei si preoccupava che mi accadesse qualcosa, non sapeva dov’ero, e mio padre, ebbe l’idea di spingermi a circoscrivere la mia passione con il calcio: “Corri quanto vuoi, ma fallo dentro un campo da gioco”».

Da che famiglia viene?

«Mio padre ha fatto tanti lavori. Ha iniziato come taglialegna, poi è entrato come operaio in una piccola azienda che faceva Parmigiano reggiano, cosa che gli piaceva molto. Quell’azienda chiuse e così lui è ripartito da zero e si è messo a fare il muratore, quel tanto che bastava per apprendere i principi del mestiere, per poi aprire una piccola società, tutta sua. L’ha fatto per vent’anni. È stato un grande esempio, per me. Io sono un po’ come lui: irrequieto dentro, appassionato, desideroso di fare e provare. E poi lui ha avuto ragione su di me».

In cosa?

«Gli orizzonti di libertà che cercavo, istintivamente, per crescere, li ho poi ritrovati nei rettangoli verdi dei campi di calcio».

E sua madre che faceva?

«Ora si può godere con mio padre la pensione, ma ha lavorato per quasi tutta la vita a Vigone, come Oss, operatrice socio sanitaria. Un lavoro duro, che amava tanto. La passione totale di assistere gli altri, una generosità nel dare, per me quasi stupefacente».

In casa avevate due redditi, ma essendo in cinque non navigavate nell’oro.

«Assolutamente no, ma non ci è mai mancato nulla. Nella mia famiglia il primo insegnamento è stato questo: niente si conquista senza fatica, passione e lavoro duro. Prima di qualsiasi altra cosa viene il merito. È stata la prima lezione della mia vita, la condivido in pieno, è quella che provo a trasmettere anche a chi lavora con me».

Si sente molto sabaudo?

(Risata). «Macché sabaudo! Ormai sono un… bastardo d’Italia! Grazie al calcio ho girato questo paese in lungo e in largo, alcune delle esperienze più forti della mia vita, come è noto, le ho fatte al sud».

La cosa più bella di vivere in piccolo paese, immerso nella natura?

«Sono cresciuto con qualsiasi tipo di animale davanti agli occhi. Per me e le mie sorelle è stata una grande lezione di creatività. A volte guardando gli animali impari molto anche sugli uomini».

E poi c’è stato il grande addio a questo mondo incantato, protettivo e famigliare.

«Non potrò mai dimenticare la scena di quando a quattordici anni me ne andai via di casa per andare nel settore giovanile del Genoa. Ricordo gli occhi di mia madre, in lacrime, sulla porta, e solo ora so cosa significa, il dolore della separazione, quando un figlio si allontana per cercare la sua strada».

A Genova si ritrova da solo, come in collegio.

«È stata una scuola, per me. Ma i miei, tutta la mia famiglia, fecero enormi sacrifici per restarmi al fianco, per vedermi giocare in giro, venirmi a trovare a Genova”.

Inizia a giocare da professionista, continuando a studiare.

«Sono sempre stato molto incuriosito dallo studio, anche se amavo molto solo alcune materie, mentre su altre facevo più fatica perché pensavo più al calcio. Ho preso il diploma di geometra, e poi ho continuato ad approfondire le idee che mi appassionano, da autodidatta».

Sa che su Youtube il suo celebre discorso prima di Lazio-Crotone è diventato un classico motivazionale? “Partiti sottovalutati da tutti, considerati inadeguati, stolti o sciocchi… abbiamo dato un messaggio alla gente, ai giovani. Io, oggi, vorrei che i loro desideri non restassero solo nei loro cuori”. Era ispirato o ha un ottimo ghost writer?

(Ride). «Io non scrivo mai una sola riga quando parlo».

E come procede?

«È semplice. Parlo a braccio, partendo dalla situazione in cui ci troviamo. E dico sempre quel che penso».

In quel discorso sui sogni, alcuni hanno letto addirittura reminiscenze scespiriane.

«Ma figurati. Casomai, risentendolo oggi, vedo la traccia di una mia grande passione che pochi conoscono: Rango».

“Rango”? Il cartone sul camaleonte domestico che salva la città del Far West?

«Io sono un divoratore di cartoni animati per bambini. Amo il modo in cui quel cinema, apparentemente per ragazzi, riesce sempre a semplificare, bene, le cose più importanti».

È cosa c’è in Rango che aiutava Davide Nicola a raccontare le sue imprese In serie A?

«Lo vedo come una metafora intrigante sulla storia dell’uomo. Non tutti hanno la fortuna di nascere sapendo già cosa faranno nella vita, molte volte parti con una idea e poi fai tutt’altro, come è accaduto a me. Ma, ad un certo punto, arriva sempre la prova che ti permette di dimostrare la tua qualità».

Lei è il suo staff partite da uno studio “meticoloso e maniacale”, dei big data, ma le piace anche dire che oggi nel calcio ci si incarta con tante statistiche inutili. Non è contraddittorio?

«Per nulla. E le faccio un esempio: un giorno nel dopo partita mi sento dire: “l’Empoli ha avuto il 65% di possesso”. Era ovvio: stavamo perdendo tre a zero, provavamo a rimontare. Però giocavamo male!»

Capisco.

«I numeri, mai come oggi che ne abbiamo così tanti, vanno interpretati bene».

Me lo spieghi con un esempio.

«Forse Albert Einstein aveva in mente il calcio quando diceva: “Non tutto ciò che conta può essere contato e non tutto ciò che può essere contato conta”».

Ahahah. I tempi del calcio stanno cambiando molto in Serie A, in questi anni.

«Ormai ci tariamo su partite che durano almeno 95 minuti. E l’anno scorso, in una delle sfide più importanti, abbiano giocato a 103 minuti e 36 secondi. Se ci pensate è quasi come un intero tempo supplementare. Quindi, quando devo esaminare i dati di una partita, per capire, semplifico molto».

In che modo?

«In questi 95 minuti quante volte sono entrato nell’imbuto dell’area avversaria? Con quante palle? Non mi interessa il possesso, soprattutto se è sterile scambio orizzontale. Mi interessa quante palle veramente pericolose produco».

E poi?

«Il dato fondamentale è quanti giocatori ho portato in area per chiudere l’azione. Ne sono entrati uno, due, quattro, sei? Con quanta costanza? Qual è il totale dei cross utili?».

Avete un archivio differenziato di ogni esercizio, per ogni giocatore, di tutti gli allenamenti fatti in questi anni?

«Ovvio, partiamo da questi dati. Io posso preparare un lavoro per i ragazzi, ma se non so quanto dispendio costa al gruppo, al singolo, come faccio a programmare gli impegni e i carichi di ognuno? Le diversità sono il sale delle squadre».

Lei dice anche che non bisogna mai diventare schiavi degli schemi.

«Certo. Tutti partiamo dagli schemi, ma nel calcio non sempre è possibile attuare ciò che prepari».

E quindi lo schema cos’è?

«Una relazione geometrica tra calciatori, che loro devono sapere riconoscere, distruggere e ricostruire, seguendo il loro intuito. Lo sviluppo di gioco nasce sempre da situazioni contingenti, e produce sempre variabili imprevedibili».

Tutti parlano del rombo, il suo come funziona?

(Nicola apparecchia lo schema con quello che c’è sulla tavola). «Rombi, quadrati, ma anche triangoli. Adesso io le piazzo questi quattro bicchieri davanti al naso. Immaginando che lei abbia alla spalle la sua porta, e davanti - dove sono io - quella avversaria, abbiamo disegnato le coordinate della figura base: il famoso rombo».

Lo vedo.

«Ogni volta che un vertice - cioè un giocatore - si muove, attacca, avanza lasciando libera la sua posizione, gli altri vertici devono muoversi in sostituzione per ricostruire la geometria del rombo. Vede dove va il bicchiere più basso per sostituire il laterale che si è spostato avanti? È un piccolo-grande principio su cui si muovono tutte le mie squadre».

Costa molto più fatica di un posizionamento più tradizionale, a zona.

(Risata sonora). «Ma tu dimmi qualcosa di bello che non costi fatica, se esiste, nel calcio o nella vita».

Si corre come matti per ricostruire la figura.

«Forse. Questa idea di una geometria da mantenere in campo, senza dubbio, costa uno sforzo cognitivo iniziale maggiore, ma una volta che impari il principio, per paradosso, ti muovi in economia: sai cosa farete tu e gli altri, non sprechi energie».

E poi che succede?

«Quando scatta l’automatismo della geometria riconosci subito le situazioni che si producono in fase di attacco o difesa».

Tipo?

«Sai sempre come muoverti, soprattutto in fase di non possesso o se perdi palla».

Quando parla di calcio lei usa sempre il plurale.

«Perché siamo un gruppo di lavoro, una squadra nella squadra. Metà delle cose di cui parlo, da solo non saprei come farle!»

E il lavoro sui giocatori?

«Io non sono mai schiavo degli schemi. Se ho un calciatore di una certa età che ha due qualità forti, devo sfruttarlo per valorizzarlo, senza chiedergli cose che - penalizzando lui - danneggiano la squadra; se gli dico di fare un movimento, ma poi mi accorgo che lui istintivamente ne fa un altro ma è più efficace, sono io che modello l’assetto in campo sfruttando la sua dote per la squadra!»

Questo è un calcio innovativo?

«Mah! Nel calcio ci sono state tante mode: fasi in cui se proponevi qualcosa di “nuovo” ti chiamano “visionario”, e se riproponevi qualcosa di “classico" ti bollavano come “retrogrado”. Io metto in campo ciò che mi serve per vincere, e delle etichette me ne frego».

Ci sono momenti in cui tutto va bene altri in cui tutto va male anche se ti impegni al massimo.

«Ha detto bene Gasperini quando ha vinto la Europa League: "Io ho vinto, ma non è che sono capace solo ora che ho vinto”».

Giusto, ma traduciamolo.

«Si vince quando arrivi dove volevi: se raggiungi la salvezza, se ottieni ciò che ti eri posto come obiettivo. Altrimenti, se ti paragoni con la prima in classifica, perdi sempre. Ognuno ha i suoi tempi, i suoi mezzi, le sue capacità per arrivare, in un modo che non è mai uguale per tutti».

Lei vuole che le sue squadre imparino a non aver paura di sbagliare.

«In Italia abbiamo la fobia dell’errore. Ma l’errore, o il fallimento - ad un certo livello - sono la dimostrazione di ciò che ti serve per realizzarti. Sbagliare è il solo modo di imparare a vincere che io conosca».

Esempio.

«La partita con la Roma di cui lei mi parlava: senza rischiare di perderla era impossibile vincerla».

Lei crede alla suggestione secondo cui Davide può sempre battere Golia?

«Un giorno, alla vigilia di una partita contro l’Inter, arriva Gigi Simoni e molto bruscamente mi fa: “Cambio programma Davide: domani Adriano lo marchi tu”».

E lei?

«Mi crolla il mondo addosso. Non mi sentivo pronto, avevo la consapevolezza di essere inferiore. Prendo coscienza di questo, ma anche del fatto che persino “l’imperatore” poteva essere fermato. Lo limitammo, lo ostacolammo, io e tutti gli altri, sulla linea di difesa. Adriano segnò, ma solo su rigore. Golia resta più forte, ma Davide può sempre farcela».

Il giovane difensore Nicola fu espulso in un derby contro la Samp e fu una disgrazia. Questo da allenatore la rende più indulgente o più severo con chi si fa buttare fuori?

«Mi fa capire meglio. Quel giorno io, cresciuto in quel mondo, sentivo troppo la partita. Ho imparato ad aiutare gli altri a non ripetere i miei errori».

Mi dica una cosa che le piace di questo mestiere.

«Osservare i giocatori senza farmi velare dal pregiudizio. Da ciò che la loro storia apparentemente dice».

Cioè?

«Lavoro sui singoli, sulla loro testa, su come si pensano».

E poi?

«Quando mi sono fatto una idea precisa su qualcuno vado da lui e gli dico: «Hai giocato 150 partite in questo ruolo, secondo me puoi fare altro, ci vorrà tempo. non è detto che ci riuscirai, ma potrebbe essere il tuo futuro. Proviamo?».

Ahahah. Siamo di nuovo dalle parti di Rango. E funziona?

«A volte sì, ed è una soddisfazione enorme. Noi non siamo macchine pensanti che talvolta si emozionano: sia macchine emotive che in qualche caso pensano».

Esempio.

«Quello del telefonino che ho sul tavolo e del leone».

Quale leone?

«Mentre parlavamo il mio telefonino ha vibrato. Ho guardato lo schermo, ho valutato che fosse più importante la nostra conversazione, e infatti le ho spiegato i rombi».

Grazie.

«Di nulla. Ma se ora quella porta si apre ed entra un leone, io non la guardo neanche in faccia, mi butto dalla finestra senza riflettere. Il cervello ha già deciso per me».

È raro che un leone si avvicini a Nicola.

«Ma non sa quante partite si perdono in serie A, solo per il modo in cui la paura più irrazionale, talvolta, contagia le squadre».

Mesi fa disse: “Non sto cercando solo una nuova squadra, ma un popolo da rappresentare. Una nuova battaglia”. E Nicola Riva le ha scritto: “Qui a Cagliari hai trovato entrambi”.

«Vero. Parto dalla squadra: ho trovato un gruppo meraviglioso, magico, caratterizzato da una fortissima identità. Loro sanno già che tante cose cambieranno, lo stiamo già facendo, ma questo spirito va preservato».

E poi?

«E poi c’è la Sardegna. Io l’ho scoperta da bambino grazie ad Abele Atzori, un caro amico che mio padre andava a trovare a Piscinas, nel Sulcis-Iglesiente. Quando tornava ci raccontava di questa terra meravigliosa. Poi Abele venne a vivere nel nostro paese. Quando a Vigone vedevamo già la prima neve, grazie ai loro racconti avevamo negli occhi il mare, il sole, i cespugli di mirto e i fichi d’india. Mi sono innamorato di questa terra già allora. Abele ha sempre avuto con lui e con noi un rapporto tale da raccontarci la Sardegna con enorme passione. Grazie a lui so che il Cagliari è molto più di una squadra, l’identità del popolo di cui parlava Riva».

È ancora vivo Abele?

«Certo! Lo ritrovi in tribuna, dalla prima di campionato, a prendere appunti».

È soddisfatto della rosa che esce fuori da questa prima fase del mercato?

«Ho una squadra che ha recepito tanto di quello che ho trasmesso. Ho avvertito subito dedizione al lavoro, senso di appartenenza, identità: i più esperti me lo dimostrano senza risparmiarsi. È un valore aggiunto».

Ci sono molti giovani tra i nuovi acquisti.

«Vedo già potenzialità importanti. C’è da lavorare, ma hanno i numeri per raggiungere la consapevolezza di quel che dovranno essere a Cagliari».

Ha già deciso chi tenere?

«Qualcuno andrà a maturare altrove, qualcuno è già andato, altri arriveranno perché io, il direttore, e la società abbiamo le idee chiare su cosa va fatto e cosa ci serve».

In una bella intervista a “Ultimo uomo” lei un giorno disse: “Sì, sono competitivo. Se potessi sbranerei tutti”.

(Spalanca gli occhi, ride). «Lo penso tuttora, anche se con certi avversari non sempre è possibile. Ancora oggi ho la stessa ambizione di quando ho esordito in panchina: migliorarmi sempre».

Questa squadra può correre per qualcosa di più della salvezza? Si può ancora farlo con tutti i milionari investimenti stranieri in Serie A?

«Non credo che un allenatore dovrebbe parlare di questo. O meglio: so che già solo restare senza soffrire nell’élite delle prime venti squadre del calcio è un'impresa meno scontata che in passato. Tuttavia…». (pausa)

Cosa?

«I miracoli non esistono. Si costruisce tutto con il lavoro e con il tempo. L’Atalanta ha costruito il suo grande ciclo in otto anni. Io so bene quale è il nostro obiettivo, oggi, ma ci sono molte condizioni per immaginare un ciclo».

Cosa fa Davide Nicola tempo libero?

«Una valanga di cose. Nessuna delle quali ha a che vedere con il calcio».

Tipo?

«Tutt’altro. Non guardo partite. Mi piace andare a teatro, al cinema scovare libri da leggere su altri argomenti. Ho la passione dei mobili storici, amo l’arte, vado in bici, frequento persone che fanno lavori diversi. Purché non abbiano a che fare con il calcio».

Perché?

«Ho bisogno di staccare: da questi mondi, mi arrivano sempre tanti input, arricchimenti che poi mi servono ogni giorno».

A casa com’è il clima?

«Rovente. Mio padre appassionato di calcio, segue ogni dettaglio. Mia madre pure. I miei figli, ormai, appena torno a casa mi interrogano. Per non dire delle mie sorelle! Federica segue perché mi vuol bene...».

E Denise?

(Risata). «È una specie di ultras. Sta già studiando il calendario, valuta le giornate più difficili. Poi mi fa domande trabocchetto».

E sua moglie quando è appassionata di calcio?

«Laura? Zero».

Dopo tanti anni? Non ci credo.

«Io e Laura ci siamo conosciuti a scuola. Lei è pacata, solida, l’opposto di me che sono vulcanico ed estroverso. Non segue minimamente i club del marito, ma allena una sua squadra con una rosa di sei elementi che poi è la nostra famiglia. Essendo azionista di questa società devo esserle molto grato perché ha raggiunto sempre tutti i traguardi. Però…».

Peró?

(Sospiro). «A volte mi fa arrabbiare, perché magari un giorno in cui ti stai giocando la pelle, lei non si ricorda (o fa finta) neanche con chi combatti. Allora le grido: "Ma Laura! Almeno informati sulla squadra contro cui andiamo in campo!”».

E lei?

(Sospiro). «Non mi dice nulla. Mi guarda, mi sorride come sa fare lei. E io mi dimentico subito di tutta la rabbia che provavo».

(Unioneoline)

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