Il fenomeno dei riadattamenti videoludici per il cinema e la televisione ha sempre avuto un trascorso a dir poco controverso. Gli esperimenti, già a partire dagli anni ‘90, si sprecano innumerevoli - basti pensare al film live action di “Super Mario Bros” con Bob Hoskins o a quello tratto dal cruento picchiaduro “Mortal Kombat” - fino a tempi più recenti. Eppure raramente - forse solo qualche anno fa con linquietante “Silent Hill” o la serie Netflix “Castlevania” - riproporre atmosfere, personaggi e il world building di un videogioco riconvertendoli col mezzo della macchina da presa ha portato a risultati soddisfacenti.

Può essere perché, da un punto di vista strettamente tecnico, nel videogioco narrazione e ambientazione si miscelano intrinsecamente agli elementi del gameplay finalizzati ad intrattenere il fruitore, e pertanto risulta difficile scorporare l’elemento ludico da quello più specificamente narrativo. Ma ancor più di questo, e per la maggiore, simili rifacimenti si son dimostrati nientemeno che svogliate operazioni commerciali intente a cavalcare l’onda delle vendite mirabolanti dei titoli che hanno attirato l’attenzione degli utenti. 

Ebbene, quest’ultima tendenza pare abbia compiuto un deciso cambio di rotta con la serie ormai sulla bocca di tutti “The Last Of Us”, ispirata all’omonimo successo della software house statunitense “Naughty Dog”.

La saga videoludica si è affermata tra i gamers come l’esperienza che più vuole avvicinare il concetto d’intrattenimento elettronico al cinema, e non è un caso che la serie televisiva - di nove episodi, in streaming ora su Sky e Now tv - consista in un fedele adattamento del primo gioco uscito su PlayStation 3 nel 2013. Ma per garantire le stesse qualità produttive che hanno fatto del titolo un vero cult il co-creatore della serie Neil Druckmann ha potuto contare sulla collaborazione di Craig Mazin, lo straordinario showrunner esploso in termini di notorietà grazie alla miniserie televisiva “Chernobyl”. La serie è stata resa possibile grazie anche all’emittente televisiva HBO, da sempre garanzia per titoli di qualità, e alla produzione intrecciata di Sony Pictures Television, Playstation Productions e Naughty Dog. 

Con la supervisione scrupolosa del materiale narrativo originale da parte di Druckmann, collaborazioni di grosso calibro come quella di Mazin ed una produzione che vanta tra i 10 e i 15 milioni di budget per episodio, le premesse di partenza per un successo garantito c’erano già tutte prima ancora dell’uscita. Adesso, giunti ormai al quarto episodio - aldilà dei comprensibili e talvolta irragionevoli timori dei fan, primo fra tutti il cast - possiamo già riconoscere la serie un’operazione riuscitissima, come non s’era mai visto in un contesto simile.

Ma cos’è che, ad oggi, rende tanto attuale e soprattutto appetibile un prodotto come “The Last Of Us”, che ad un’occhiata distratta sembrerebbe l’ennesimo tentativo di reinventare un futuro post-apocalittico tristemente possibile?

Innanzitutto, le premesse iniziali di una pandemia fuori controllo a seguito della diffusione del Cordyceps - un fungo parassita che intacca le persone tramutandole in bestie senza controllo dall’aspetto orripilante - non può che instaurare un’intima connessione con gli spettatori rispetto alla recente esperienza pandemica di cui siamo stati tutti testimoni. Ciò lo si evince soprattutto nell’incipit della prima puntata, del tutto inedito, che vede un virologo ospite di un programma televisivo discutere con modalità non troppo dissimili da quelle a cui ci siamo abituati. Ma la serie compie questa vicinanza col tempo presente senza scadere in una gratuità dell’effetto; al contrario, rendendo più efficace la narrazione avvalendosi di espedienti che, purtroppo, riconosciamo come familiari. Il tema degli umani infetti che invadono il mondo in rovina pare messo in secondo piano rispetto ad altre tematiche che appaiono invece da subito più forti nel peso dei loro contenuti: il rapporto padre - figlia si specchia, in qualche modo, nel tortuoso relazionarsi di Joel (Pedro Pascal) ed Ellie (Bella Ramsay), in cammino insieme, seppur contro la propria volontà, per compiere una missione che potrebbe cambiare radicalmente le sorti dell’umanità.

Il tema del viaggio e l’evoluzione dei personaggi si lega quindi al legame affettivo che man mano si instaura tra i due, acquisendo  - con un sapiente gioco di attrazioni e contrasti - una viva e quanto mai verosimile caratterizzazione. Oltre ai protagonisti l’ambientazione si impone a tutti gli effetti come un personaggio attivo insieme agli altri: è la natura che riacquista il controllo sulla volontà umana, dove agli edifici distrutti va intrecciandosi una vegetazione sempre più folta ed oppressiva. Un’eventualità che - considerando gli attuali dibattiti sul cambiamento climatico - si rivela terribilmente plausibile.

In un contesto simile l’aspetto antropologico e sociologico dei pochi sopravvissuti alle spore costringe a una dittatura militare in perenne conflitto coi gruppi terroristici delle Luci. Qui ogni singolarità trae forza dalle proprie, specifiche motivazioni personali: a che scopo continuare a vivere, con quali mezzi e a quale prezzo, in una lotta comune dove colui che vince è, semplicemente, l’ultimo a rimanere in piedi?

Anche qui emerge prepotente un tema attualissimo: l’individualismo a scapito del collaborazionismo, e ancora una volta la serie sa dimostrarsi elegante nel problematizzare temi scomodi senza tradire la sua funzione d’intrattenimento e la coerenza dei suoi elementi.

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