Un disco di cover di Robert Johnson. Come no? Per un bluesman, una delle scommesse più rischiose: Johnson è la summa, la definizione stessa di delta blues, un pugno di composizioni potentissime, archetipi, il Fort Knox che ha alimentato l'economia di un intero genere (anzi di due: oltre al blues, anche gran parte del rock se è vero che gente come Keith Richards, Eric Clapton e Bob Dylan si è formata su quel libro di testo).

Confrontarsi con il misterioso maestro del Mississippi è roba da far tremar le vene e i polsi. Sfida raccolta e vinta con successo da un signore che si chiama Francesco Piu, non viene da Memphis ma da Osilo, ha 38 anni e ormai da una dozzina gira il mondo a suonare e cantare il suo blues dall'accento sardo. Accento inconfondibile e, intelligentemente, esibito. Il suo nuovo album, registrato e missato da Giuseppe Loriga al Geppo Studio di Sassari con ospiti di peso (fra gli altri, Antonello Salis, Gavino Murgia e Gino Marielli dei Tazenda), è pubblicato da Appaloosa Records (distribuzione Ird) si intitola "Crossing" ed è uscito lo scorso 18 ottobre.

Il disco, disponibile anche sulle piattaforme digitali, suona assai bene e rivisita il repertorio johnsoniano con sicurezza, anima, fantasia e una buona dose di irriverenza: in Stones in my passway, per dire, affiorano schegge di scratching di un dj.

Oltraggio? Nient'affatto. Ma il "crossing" principale è con il Mediterraneo: i classici johnsoniani recuperano il legame ancestrale con l'Africa grazie alle percussioni; tirati dagli intrecci di corde (kora, djembè, darbuka, daf, riqq, mandolino) virano verso Grecia e Medio Oriente, approdano in Sardegna attratti dalle sirene delle launeddas e del canto a tenore. Si potrebbe parlare di world music, se non fosse che l'etichetta rischierebbe di far pensare a un prodotto in qualche modo acquietato. Mentre invece Piu è un artista inquieto, un cantante sempre più padrone della propria voce, un chitarrista che non ha più bisogno di dimostrare niente a nessuno e può permettersi il lusso di abbandonarsi allo spirito selvaggio che gli soffia dentro.

Un gran bel disco, che prosegue nella scia degli apprezzati "Ma-moo Tones" (2012) e "Peace & Groove" (2016) e va ad arricchire un curriculum ormai debordante (ospite nei festival più rilevanti, tour in Europa e Nord America, ha condiviso il palco con autentici mostri sacri: John Mayall, Johnny Winter, Jimmie Vaughan e tanti altri) e una discografia importante (quattro album in studio e tre dal vivo), Francesco Piu è ormai un nome consolidato nel panorama blues attuale. Un panorama in cui la Sardegna entra di diritto. Perché Piu non è un frutto isolato. L'Isola ha una scena blues vivace, che conta su alcuni festival di rilievo (Narcao, Mama Blues a Nureci, Aglientu e altri) e artisti che continuano a offrire novità discografiche.

Bad blues quartet (Bentu Estu)
Bad blues quartet (Bentu Estu)
Bad blues quartet (Bentu Estu)

Negli ultimi anni se ne sono registrate parecchie interessanti: fra le altre, i debutti di nuove leve come River of Gennargentu o Matteo Leone (vincitore dell'Italian blues challenge 2017 insieme a Donato Cherchi con cui forma il duo Don Leone), ma anche di uno dei decani, Vittorio Pitzalis (che l'anno scorso ha rappresentato l'Italia all'International blues challenge di Memphis). Lo scorso luglio è uscito anche il secondo disco di un'altra realtà da esportazione, i Bad Blues Quartet, che hanno avuto la consacrazione sul palco del Pistoia blues festival tre anni fa. Si intitola "Back On My Feet", propone sei brani originali e due cover con un suono che, partendo dal blues e spaziando tra funky e hard rock, ricalca fedelmente le atmosfere che il quartetto (composto dalla front woman Eleonora Usala alla voce, Federico Valenti alla chitarra, Frank Stara alla batteria e Gabriele Loddo al basso) propone dal vivo. Lo pubblica un'etichetta sardissima: la Talk About Records, nella cui scuderia spicca un nome di rilievo per l'hard blues sardo, quello dei King Howl. C'è anche chi dal blues parte per esperimenti più radicali e underground.

Stropiccii, fruscii, un crepitio di fiamme, una nota di clarinetto basso, tamburelli che si fanno frenetici, una voce che affiora dal nulla, tagliente come una lama: "Svegliati, stanno bruciando tutto, qua". Comincia così A-Pathos, primo album auto-prodotto di Malignis Cauponibus, progetto concepito a San Sperate dal bluesman sperimentale Luca Marcia.

Il blues è sicuramente una coordinata fondamentale ma non l'unica, per provare a collocare la musica di Malignis Cauponibus. Del blues non c'è qui tanto lo schema delle dodici battute quanto piuttosto una pulsione viscerale, una vocazione al ruvido, al rauco, al lamento de profundis, e lo slabbrarsi di corde plettrate con mano pesante.

Malignis Cauponibus (Alessio Cabras)
Malignis Cauponibus (Alessio Cabras)
Malignis Cauponibus (Alessio Cabras)

A-Pathos è un viaggio onirico (lato incubo) e a tratti delirante, come un monologo interiore inquietante e disturbante condotto in un quadro di (parola dell'artista stesso) "arsura mentale". L'obiettivo, del resto, è un attacco frontale all'indifferenza. Un album coraggioso e altero, insomma, che non si avvicina con fare compiacente all'ascoltatore ma lo affronta con agguati insidiosi lungo le nove tracce (per mezz'ora complessiva). C'è un rimando a modelli come Captain Beefheart o Tom Waits o, per stare in Italia, a Vinicio Capossela, i Quintorigo di John De Leo o i Marta Sui Tubi, con qualche suggestione marcata Morricone. C'è però, anche in questo caso, molta, moltissima Sardegna, già a partire dalla lingua (variante campidanese), ma più radicalmente nei suoni, con la voce che scende nelle profondità ancestrali a pescare vibrazioni da canto a tenore, e nelle immagini.

Il disco, autoprodotto, è stato registrato l'estate scorsa al Solid Twin Studio di Andrea Piraz & Roberto Macis (Cagliari) ed è uscito all'inizio di ottobre sulle principiali piattaforme digitali; non è prevista la pubblicazione su supporti fisici.
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