Il 5 aprile del 1994, a soli 27 anni, muore Kurt Cobain, leader dei Nirvana. Il corpo senza vita del cantante verrà ritrovato tre giorni dopo, l’8 aprile, alle 8.40 del mattino, dall’elettricista della ditta Veca Electric, Gary Smith, che era andato nella villa al 171 di Lake Washington Boulevard East, a Seattle.

Il mondo ha perso un’icona degli anni ’90, colui che ha saputo dar voce ai giovani che non riuscivano a trovare la loro dimensione, ma che si sentivano rappresentati da quel ragazzo biondo che veniva dalla provincia americana, vestito con la camicia di flanella, i jeans strappati ma che ce l’aveva fatta. Lui era lì a cantare il malessere di tutti, quel malessere che partiva dal suo stomaco e saliva alla gola, fino a sprigionarsi in un coro che diventava collettivo. Non c’erano i social network negli anni ’90 ma la notizia della morte di Cobain si era diffusa rapidamente a Seattle. Un passaparola che partiva dalla voce commossa degli annunciatori radiofonici che diramavano le prime informazioni e attendevano conferme, sperando di avere smentite, che purtroppo non arrivavano. La notizia aveva sconvolto i fan di tutto il mondo. A Seattle in tantissimi si erano radunati per ricordarlo.

Cobain è stato il simbolo di una generazione che si è identificata nella sua musica attraverso quel grido rabbioso ma pieno di energia, e anche con i testi malinconici e le melodie distorte. Con la sua morte si sono spenti i riflettori sulla cosiddetta scena “grunge” di Seattle, si sono abbassati i volumi ed è piombato improvvisamente il silenzio del lutto e di un vuoto che non è mai stato più colmato da nessuno se non dal ricordo per tutto ciò che è stato e che poteva essere ancora. “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”, recitava Neil Young in “My my, hey hey”.

Angelo Barraco

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