Il primo a trasformare l’oro in opere d’arte è stato Giovanni Danese. A quei tempi la bottega non ce l’aveva ancora e allora a proporre e vendere le sue creazioni andava su e giù per la Sardegna, in sella ad un cavallo. Era un orafo viandante che ha dato il via a una famiglia di artisti, arrivata adesso alla quarta generazione, dal 1876 ad oggi.

Perché in città i Danese sono un’istituzione. L’estro di Giovanni nel modellare la filigrana passò poi a suo figlio Tigellio, che aprì la bottega dopo la guerra, e da questo al figlio Marco Danese che oggi ha 79 anni e ha già trasmesso arte e passione ai suoi figli Tigellio (come il capostipite). L’altra figlia, Maura, è un’esperta gemmologa. Dalle loro mani nascono i gioielli quartesi, che sono arrivati anche in Vaticano: per Papa Wojtyla Marco Danese ha realizzato un rosario e per papa Francesco i gemelli.

La famiglia

«Sono nato in una famiglia di orafi e non potevo che continuare questo mestiere», racconta Marco Danese, cavaliere del lavoro e maestro orafo insignito, «avevo dieci anni quando ho cominciato a maneggiare il cannello. Mio nonno e mio padre mi hanno insegnato tutto». Nascono così i primi bottoni, «poi sono passato alle fedi sarde», magia pura nelle sue mani esperte che modellano la filigrana fino a farla diventare qualcosa di unico e prezioso. Marco Danese lavorava a pieno ritmo anche la notte nella sua bottega, insegnando i primi rudimenti al figlio Tigellio: «Quando il filo era pronto lui lo toccava e faceva disastri», ricorda sorridendo.

Ma adesso Tigellio disastri non ne fa più: crea anche lui meraviglie, dalle agulla de conca, le spille che si utilizzavano per tenere il velo, a su lasu e poi orecchini, collane e tanto altro che sfilano indosso alle donne a Sant’Efisio e in tutte le feste. «La filigrana l’abbiamo nel Dna», dice Tigellio, «io sono nato in laboratorio. E adesso mio figlio Marco, che ha 11 anni, già impara con me e il nonno».

Gli insegnamenti

Anche Giuliana Chiello ha imparato a lavorare la filigrana dal patrigno Aldo Giordano. «Quando ero piccina lo vedevo con le mani sempre nere e non capivo il motivo. Mi ha affascinato da allora e appena diventata più grande ho imparato da lui». Nella loro bottega in viale Colombo ci sono ancora i macchinari antichi per lavorare l’oro, come l’asse con la ruota in legno per tirare il filo. Poi questo viene lavorato con il fuoco.

L’amore

«Per me la filigrana è cultura», aggiunge Chiello, «è un gioiello che parla del mio popolo e lavorarla mi rende orgogliosa». I gioielli quartesi «sono come un corredo da dover tramandare di generazione». È come un album fotografico da sfogliare partendo da su lasu, che si mette al collo, composto da tre elementi e poi le cannache, (le collane), is palias (gli orecchini), gli anelli di vario tipo e le spille. «La prima cosa che mi hanno insegnato», dice ancora Chiello, «è che prima di toccare la filigrana devi essere serena. Se hai avuto una giornata no, non ti puoi sedere a lavorare, perché nel momento in cui crei la filigrana non devi pensare ad altro».

In via Cavour lavora la filigrana anche Aldo Puddu: «Ho iniziato a 16 anni imparando nelle botteghe», racconta, «ed è nato tutto un po’ per caso, ho conosciuto un artigiano che lavorava l’oro ed è stato un colpo di fulmine. Creo i gioielli quartesi ma mi dedico anche all’oreficeria moderna».

Giorgia Daga

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