Fu la badessa Ildegarda di Bingen, monaca benedettina vissuta in Germania all'inizio del XII secolo, ad aver intuito per prima che il sesso era in grado di determinare una diversa predisposizione alla malattia tra l'uomo e la donna.

La medicina di genere è però una realtà concreta solo da alcuni anni: l'Italia, dimostrando lungimiranza, è stato il primo Paese al mondo a legiferare sul tema. Anche per questa ragione, il Convegno sulla Medicina di Genere che si terrà a Cagliari domani, è di fondamentale importanza visto che sarà il primo evento regionale in materia dopo l'entrata in vigore della Legge 11 gennaio 2018, n. 3, con particolare riferimento all'Art. 3 comma 1.

A tal proposito, abbiamo interpellato la dottoressa Gesuina Cherchi, referente regionale del Tavolo Tecnico Regionale di Coordinamento per la Medicina di Genere, nonché componente del tavolo nazionale presso il Ministero della Salute. Il compito del Gruppo Tecnico è quello di monitorare ciò che accade sul territorio, con azioni di promozione e di applicazione delle norme previste nel piano nazionale che si basano su quattro aree d'intervento:1) Percorsi clinici di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione;

2) Ricerca e innovazione; 3) Formazione e aggiornamento professionale;

4) Comunicazione e informazione.

E sarà proprio dalla Comunicazione e Informazione che i componenti del Tavolo Regionale, attraverso il convegno di Cagliari, hanno voluto iniziare questo nuovo percorso.

«Si può dire che per la medicina di genere sia una svolta storica» afferma Gesuina Cherchi. «La medicina di genere non è la medicina della donna o una branca a sè stante della medicina, ma una dimensione trasversale delle scienze mediche, che coinvolge tutte le figure professionali impegnate in ambito sanitario».

Le parole della dottoressa Cherchi sono supportate dai numeri: ad esempio, anche se «l'uomo soffre meno di frequente di osteoporosi rispetto alla donna, quando ha una frattura registra una mortalità quattro volte maggiore». Per quanto riguarda le patologie psichiatriche invece «le donne hanno quasi il doppio delle probabilità di soffrire di depressione, ma l'uomo ha un tasso di suicidi sei volte più alto». Quelle cardiovascolari meritano un approccio ancora diverso: perchè anche se «l'infarto è la prima causa di morte delle donne, nell'80% dei casi loro non presentano i tipici sintomi di dolore al petto irradiato al braccio sinistro».

Insomma, tutte le discipline devono essere ristudiate alla luce di questo nuovo approccio scientifico: non si tratta solo di ridurre il dosaggio dei farmaci in base al peso corporeo, ma di studiare il modo diverso in cui le malattie si manifestano e rispondono ai farmaci.

Marco Scano

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