«Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa, legata all’età, presente in tutto il mondo», spiega il professor Giovanni Defazio, direttore della Neurologia del policlinico “Duilio Casula”, nel corso di “15 minuti con…”, il talk di approfondimento sulla salute dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Cagliari, in collaborazione con il gruppo Unione Sarda, condotto dal giornalista Fabrizio Meloni, responsabile Comunicazione e Relazioni esterne dell’Aou.

Questa patologia è considerata la più frequente tra i “disordini del movimento” e in Sardegna si stima interessi più di tremila persone. «Il Parkinson conduce a una progressiva disabilità motoria con relativa perdita di indipendenza, isolamento sociale, rischio di cadute e traumi», sottolinea Defazio, «e si sviluppa di solito nell’adulto dai 50 anni in avanti, anche se esiste un 10% di casi cosiddetti giovanili riscontrabili al di sotto dei 40 anni. Prima dei 20 anni è estremamente rara. Sopra i 60 anni colpisce 1-2% della popolazione, mentre la percentuale sale al 3-5% quando l'età è superiore agli 85».

«Le cause sono nella maggior parte dei casi sconosciute. Il sintomo principale della malattia di Parkinson», prosegue il medico, «è la bradicinesia (riduzione dell’ampiezza e della velocità dei movimenti automatici ripetitivi man mano che vengono effettuati), alla quale possono accompagnarsi altre due problematiche motorie, il tremore (presente nel 60% dei casi) e la rigidità muscolare, che fa sì che il parkinsoniano abbia muscoli contratti di base, soprattutto i flessori, inducendo una postura irregolare. Questi sintomi si presentano spesso in modo asimmetrico (un lato del corpo è più interessato dell’altro)».

«Chi soffre di questa patologia, inoltre», aggiunge il professore, «non ha solo problemi motori (quelli necessari per effettuare la diagnosi); vi possono essere altri disturbi, non motori come ansia, depressione, disturbi del sonno, disturbi del sistema neurovegetativo, (pressione bassa, stitichezza, riduzione dell’olfatto). All'esordio, spesso i sintomi non vengono riconosciuti subito, perché si manifestano in modo non evidente, incostante e con una progressione tipicamente lenta. Talvolta sono i familiari o i conoscenti ad accorgersi per primi che "qualcosa non va" e a incoraggiare il paziente a rivolgersi al medico».

«Questa malattia compare in seguito a una progressiva perdita di neuroni in determinate aree del cervello», evidenzia Defazio, «e a oggi non disponiamo di terapie in grado di arrestarle, anche se a questo mira la ricerca. Abbiamo a disposizione terapie farmacologiche sintomatiche, che sfruttano i neuroni rimanenti per potenziarne l’azione e ridurre sintomi del Parkinson, in particolare quelli motori (tremori, rigidità, bradicinesia), rendendo meno difficoltosa la convivenza con la malattia».

«Quando gli effetti della terapia farmacologica, con l’andar degli anni si deteriorano», afferma il professore, «è possibile intervenire, anche nella nostra struttura, con la somministrazione della levodopa, il farmaco più efficace per la malattia, direttamente nel duodeno attraverso una pompa per infusione, garantendo così un livello stabile e continuativo del composto nel sangue, a differenza di quanto avviene con l’assunzione per bocca. Una seconda procedura destinata ai casi avanzati è la stimolazione cerebrale profonda (praticata in Sardegna all’Ospedale Brotzu), un intervento di neurochirurgia che non necessita di anestesia generale e consiste nel mettere una specie di pacemaker, collegato a una pila, in una zona del cervello, così da generare una stimolazione continuativa».

Luca Mirarchi

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