Gli esperti rispondono
Domande e risposte in tema di urologia, medicina estetica, nutrizionismo e cardiologiaSangue nelle urine, segnale da non sottovalutare
Qual è il significito della presenza di urine arrossate o con sangue?
L’ematuria, cioè la presenza di sangue nelle urine, è il sintomo principale del carcinoma uroteliale. Per questo è un segnale che non deve mai essere sottovalutato, soprattutto quando il sanguinamento non si accompagna ad altri sintomi. L’ematuria monosintomatica deve preoccupare. In genere, il sangue è di color rosso vivo se viene dalla vescica, mentre se viene dalle alte vie escretrici può essere un po' più scuro. Il sangue nelle urine impone un immediato controllo da parte del medico. Anche le cistiti ricorrenti, spesso trattate con ripetute terapie antibiotiche, devono suscitare sospetto e indurre ad approfondimenti diagnostici perché potrebbero essere un segnale di carcinoma uroteliale. La prima figura che il paziente deve allertare è il medico di famiglia o l’urologo perché è importante non trascurare questi segnali. In senso prognostico quello che fa la differenza è il passaggio dalle forme non infiltranti a quelle infiltranti. I tumori che invadono la tonaca muscolare richiedono trattamenti aggressivi e radicali, quelli che non invadono la muscolare o superficiali, possono essere trattati in maniera conservativa. È importante accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica sul tumore della vescica e diagnosticarlo tempestivamente sono due aspetti fondamentali. Il carcinoma uroteliale ha un impatto drammatico sulla sopravvivenza ma anche sulla qualità della vita del paziente che sopravvive. Cogliere in stadio precoce le neoplasie vescicali consente di aumentare la possibilità di guarigione, la possibilità di controllare la malattia e la sua progressione. Un esempio, una delle forme non infiltranti ma più pericolose è il cosiddetto carcinoma in situ, che per definizione è formato da cellule altamente maligne che possono dare metastasi a distanza anche senza invadere la muscolare. Molto spesso questo carcinoma è silente, non da segni di sé e la cistite ricorrente è una delle situazioni più frequenti ed è bene che ci sia da parte del medico la consapevolezza di approfondire la diagnostica. Per questo la presenza del sangue va sempre indagata in maniera approfondita, con strumenti come ecografia, citologia urinaria e cistoscopia. In questi ultimi anni sono migliorate le tecniche diagnostiche e le terapie e sono in arrivo altri nuovi farmaci ma campagne di sensibilizzazione come “Fermati al rosso” dell’Associazione dall’associazione PaLiNUro - Pazienti Liberi dalle Neoplasie UROteliali hanno un ruolo molto importante perché focalizzano l’attenzione su precisi target e lanciano messaggi semplici, comprensibili e fondamentali su come intercettare tempestivamente il tumore.
Giario Conti, segretario nazionale Società italiana di Uro Oncologia
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Lifting del collo con una fibra ottica
Quali trattamenti possono essere particolarmente utili per affrontare i problemi estetici del collo?
Il trattamento migliore per quest’area resta la prevenzione perché tutte le terapie di medicina estetica hanno effetti limitati in questa zona difficile da trattare. Biostimolazione e fili di sospensione o di biostimolazione, possono essere usati, ma solo in fase veramente iniziale perché la fibrosi che vanno a creare i fili consenta di mantenere il più a lungo possibile adesi i tessuti superficiali a quelli sottostanti, prevenendone lo scollamento che porterà poi al cedimento. In caso di lieve cedimento a livello di bordo mandibolare e collo, la tecnica endolift, ha confermato di essere sicura ed efficace. Si tratta di una fibra ottica che viene inserita al di sotto del derma, che attraverso una luce laser crea delle piccole retrazioni a livello subdermico, che hanno la capacità di riattaccare i tessuti superficiali a quelli profondi. Quando il problema è invece un po’ più avanzato, l’unica terapia efficace è quella chirurgica, con il lifting del terzo medio del volto e del collo.
Emanuele Bartoletti, presidente della Società italiana di Medicina estetica
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Reflusso gastrico, prevenirlo a tavola
La dieta può influire sul reflusso gastroesofageo?
Oltre il 20% degli italiani soffre di reflusso gastrico e tra le cause principali si annovera senza dubbio lo stile alimentare inadeguato. Una persona ogni giorno mangia in media almeno due-tre kg di cibo, ma molto spesso senza rendersene conto. Qualsiasi pietanza, solida, liquida, fredda, calda, cruda o cotta, con consistenza diversa finisce nello stomaco riempiendolo alla stregua di un secchio. In sintesi, le scelte alimentari possono esasperare il tempo di permanenza degli alimenti nella cavità gastrica causando il reflusso gastro-esofageo. In questo disturbo spesso non c’è infatti un aumento dell’acidità gastrica, ma i dolori e il “bruciore” dopo il pasto esprimono esclusivamente il passaggio dei succhi gastrici nell’esofago, organo non strutturato per arginare gli effetti dell’acido gastrico. La chiave di volta è unicamente la scelta di una dieta appropriata, garante di tempi digestivi brevi e di principi attivi specifici favorenti la riparazione della mucosa esofagea.
Pietro Senette, nutrizionista e ricercatore
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Pacemaker, ecco quando sostituirlo
Ho un pacemaker: come mi devo comportare e cosa succederà quando si scaricherà?
Il cuore, come tutti gli organi, invecchia o si ammala. In questi casi è necessario impiantare un pacemaker. Il dispositivo è poco più grande di una moneta da 2 euro. Attraverso due fili posizionati nel cuore si restituisce una corretta frequenza cardiaca sia a riposo che sotto sforzo. Infatti il dispositivo ha la capacità di “leggere” un’attività fisica e, conseguentemente, incrementare in modo fisiologico il battito cardiaco. Il paziente potrà condurre una vita assolutamente normale con la sola raccomandazione di evitare traumatismi nella zona di impianto e di comunicare al personale medico ogni volta che venisse ricoverato in ospedale o se si dovesse sottoporre ad una risonanza magnetica. In questi casi è necessaria spesso una riprogrammazione del dispositivo. I controlli sono ormai annuali presso i centri di cardiostimolazione. La durata delle nuove generazioni dei pacemaker varia fra i 10 e i 12 anni. Al termine della vita del dispositivo, in realtà qualche mese prima ,lo stesso viene sostituito, con una tecnica simile, ma ancora più semplice del primo impianto, con un modello nuovo.
Giancarlo Molle, medico cardiologo all’Aou di Monserrato