La salute dell’organismo è legata in buona parte ad un’alimentazione corretta ed equilibrata. Ci sono però casi in cui il cibo non è più un alleato del benessere, ma si trasforma in una sorta di nemico, provocando vere e proprie patologie. Come riportato dal ministero della Salute in occasione dell’ultima Giornata Mondiale d’azione sui Disturbi dell’Alimentazione (il 2 giugno 2022), i disturbi alimentari (DA) sono un problema di sanità pubblica di crescente importanza, vista la loro diffusione negli ultimi decenni e il preoccupante abbassamento dell’età media nella quale iniziano a manifestarsi.

Si tratta, sempre secondo la definizione fornita dal ministero, di stati patologici complessi frequenti negli adolescenti e nei giovani adulti che possono influire negativamente sullo sviluppo corporeo e sulla salute fisica e psicosociale, comportando, a volte, gravi problemi medici, sia acuti che cronici.

Patologie complesse

Nella categoria dei disturbi alimentari rientrano anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating). Anoressia e bulimia, in particolare, sono malattie complesse che nascono da situazioni di disagio psicologico ed emotivo e richiedono dunque un trattamento sia a livello psichico che nutrizionale.

Queste patologie, se non individuate e curate per tempo, rischiano di tramutarsi in una condizione permanente e di compromettere seriamente la salute di tutti gli organi e apparati del corpo, da quello cardiovascolare a quello gastrointestinale, fino allo scheletro e al sistema nervoso centrale.

Quando preoccuparsi

In particolare, la bulimia si manifesta in un rapporto scorretto nei confronti del cibo. Chi ne soffre dapprima tende a controllare il peso in modo ossessivo, diminuendo fortemente la quantità di alimenti introdotta, per poi lasciarsi andare ad abbuffate smodate (binge eating) in un arco di tempo ristretto e, molto spesso, di nascosto. L’abbuffata è preceduta e seguita da uno stress emotivo molto forte e la persona avverte la sensazione di non poter smettere di mangiare e di non poter controllare il proprio comportamento. Successivamente, il bulimico si libera della quantità di cibo ingerita procurandosi conati di vomito oppure assumendo lassativi: si tratta dei cosiddetti comportamenti di eliminazione. Questo circolo vizioso può mettersi in moto per la fame o per lo stress ma, più frequentemente, si tratta di un modo per fronteggiare i propri stati d’ansia.

Bassa autostima, depressione e tensione sono considerate le cause più frequenti dell’insorgere della bulimia, anche se i fattori scatenanti non sono stati ancora definiti in modo chiaro e univoco. Non risulta semplice nemmeno individuare quando una persona rischia di scivolare verso la bulimia, visto che i comportamenti compulsivi vengono vissuti con vergogna e tendono ad essere tenuti segreti. Tra i segnali da cogliere, ci sono il comportamento ossessivo nei confronti del cibo e l’atteggiamento ipercritico verso il peso e la linea, le visite frequenti al bagno dopo i pasti fino ad arrivare alle nocche delle dita graffiate per averle spinte in gola, nel tentativo di provocarsi il vomito. Attenzione anche alle forti oscillazioni di peso: il soggetto bulimico infatti può presentare variazioni notevoli, al contrario dell’anoressico che risulta essere quasi sempre sotto peso. Va ricordato anche che la bulimia può essere associata ad altre problematiche, come l’abuso di alcol e i comportamenti autolesionistici.

L’incidenza

Gli ultimi dati mostrano che la bulimia è ben più diffusa rispetto all’anoressia. Le stime riguardanti i Paesi occidentali (e quindi anche l’Italia) indicano una prevalenza di circa il 3%, contro lo 0,2-0,8% per l’anoressia. L’incidenza della patologia è di 9-12 nuovi casi su 100mila individui, con un’età di esordio tra i 10 ed i 30 anni, e un’età media di insorgenza attorno ai 17 anni. Il disturbo solitamente è più presente nelle giovani donne con un’età compresa tra i 15 e i 25 anni. Proprio in questa fascia l’incidenza è cresciuta di più negli ultimi anni: un dato che alcuni studiosi hanno correlato con i modelli “distorti” di femminilità e bellezza imposti dai media e dall’industria della moda. 

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Cruciale intervenire in modo tempestivo: chiedere aiuto spesso è complicato ma va fatto subito

Il primo passo da compiere per riuscire a sconfiggere una patologia è quello di individuarla per tempo, in modo da intervenire tempestivamente prima che possa degenerare. Questo assunto è particolarmente valido con un disturbo di stampo mentale come la bulimia: chi ne è affetto quasi sempre prova vergogna e  tende a tenerlo nascosto, continuando ad alimentarsi in modo scorretto per mesi se non per anni prima di decidersi a chiedere aiuto. Dal circolo vizioso della bulimia però si può uscire in tempo, prima che insorgano gravi danni alla salute dell’organismo. E, visto che spesso i sintomi si manifestano in età puberale o adolescenziale, è fondamentale il ruolo dei genitori nel cogliere le spie del disagio alimentare dei figli, senza sottovalutare eventuali problemi e rivolgendosi in modo tempestivo ai consigli di uno specialista.

Secondo il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5) dell’American Psychiatric Association (APA), la diagnosi di bulimia nervosa può essere effettuata se le abbuffate e le successive condotte compensatorie (vomito e/o assunzione di lassativi) si verificano entrambe almeno una volta a settimana per tre mesi.

Team di specialisti

La prima cosa da fare, se si pensa di essere bulimici o si sospetta che qualcuno lo sia, è rivolgersi al medico di famiglia per un primo consulto. Dopo la valutazione, che spesso viene effettuata anche attraverso un questionario sulla routine alimentare, il medico può indirizzare la persona verso un centro specialistico. In queste realtà, il soggetto bulimico viene seguito da un team di specialisti che solitamente comprende: psichiatri/neuropsichiatri; psicologi; nutrizionisti clinici e dietisti; personale medico con competenza specialistica nel campo dei problemi fisici caratteristici dei disturbi dell’alimentazione;  operatori sociali. 

Trattandosi di un disturbo di tipo nervoso e mentale, la terapia per i bulimici comincia a livello psicologico, al fine di ristabilire atteggiamenti e comportamenti corretti nei confronti del cibo. La strada più battuta è quella della terapia cognitivo-comportamentale (CBT): i colloqui con lo specialista servono al paziente per analizzare i problemi e modificare la convinzione che il peso corporeo costituisca il primo valore su cui fondare il giudizio su se stessi. In alcuni casi si interviene anche con la psicoterapia interpersonale (IPT) allo scopo di identificare e modificare il contesto nel quale il disturbo alimentare ha trovato terreno fertile per svilupparsi.

Il trattamento della bulimia nervosa può prevedere anche la somministrazione di farmaci anti-depressivi, come gli inibitori selettivi del reuptake di serotonina (o SSRI). Solo in presenza di gravi complicazioni e di situazioni a rischio può essere necessario il ricovero in ospedale del soggetto bulimico.

La guarigione si ottiene modificando le proprie abitudini alimentari e il modo di pensare al cibo e, se necessario, aumentando di peso in modo sicuro. Il processo può richiedere diverso tempo e rivelarsi difficile in alcune fasi, con pesanti ricadute. In generale, però, si esce prima e meglio dalla bulimia se la terapia è cominciata poco tempo dopo l’inizio dei comportamenti alimentari scorretti. Prima si interviene sul disturbo, più alte saranno le possibilità di uscirne.

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Cifre in crescita: un quadro aggravato dalla pandemia
L’emergenza pandemica ha portato ad un aggravamento della situazione per quanto riguarda i disturbi alimentari in Italia. I periodi di lockdown e le restrizioni alla mobilità, con la conseguente modifica delle routine quotidiane, hanno portato all’aumento dei nuovi casi e a condizioni più difficili per chi già era afflitto da problematiche legate al cibo.

I dati, diffusi il 15 marzo scorso in occasione della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla sui disturbi alimentari, parlano chiaro. Una survey conclusasi a febbraio 2021, basata sull’incrocio di diversi flussi informativi analizzati dal Consorzio interuniversitario CINECA, ha evidenziato come nel primo semestre 2020 (periodo segnato dal primo pesante lockdown) sono stati rilevati 230.458 nuovi casi di disturbi alimentari, contro i 163.547 del primo semestre del 2019. L’incremento è stato dunque di circa il 40%.

L’analisi ha anche mostrato un ulteriore abbassamento dell’età di esordio: il 30% della popolazione con disturbi alimentari ha meno di 14 anni. Il fenomeno è cresciuto poi nella popolazione maschile, tradizionalmente meno soggetta ad anoressia e bulimia: nella fascia tra i 12 e 17 anni si arriva al 10%.

“Durante la pandemia – ha sottolineato Laura Dalla Ragione, responsabile Rete Disturbi Comportamento Alimentare Usl 1 dell’Umbria – le persone che soffrivano di un disturbo alimentare si sono aggravate. Magari hanno impiegato mesi per trovare il coraggio di chiedere aiuto o hanno aspettato mesi per un ricovero, aumentando il rischio di cronicizzazione o ricaduta nel problema”.

In generale, considerando sia i nuovi episodi che i casi in trattamento, nel 2020 il disturbo ha coinvolto circa 2,4 milioni di  pazienti nel nostro Paese. Ma, secondo gli esperti, si tratta di un dato sottostimato visto che esiste, in questo tipo di  patologia, una grande quota di pazienti che non arriva alle cure.

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