Se è vero, come è vero, che la composizione e la stabilità di un Governo dipendono dalla genesi e dalla solidità della maggioranza parlamentare che lo caratterizza qualificandone la successiva azione, parimenti appare altrettanto vero che quella medesima maggioranza, a sua volta, sembra dipendere, come di fatto dipende, dal modo in cui il sistema elettorale per il rinnovo del Parlamento abbia “declinato” e “reso conseguibili” le preferenze degli elettori. Oramai è un concetto più o meno noto a tutti noi per averne avuto clamorosi esempi pratici già all’indomani delle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Credo che sia, altresì, consapevolezza comune che l’esigenza di garantire la necessaria emblematicità dell’organo collegiale spesso e volentieri confligge con la altrettanto ineludibile esigenza di assicurare il rispetto del principio di cosiddetta “governabilità”, il più delle volte concepita, quest’ultima - se a ragione o a torto si può discutere –, unicamente in antitesi al concetto distinto e contrario dell’“instabilità” da taluni, invece, positivamente intesa quale potenziale fattore creativo del “cambiamento”, di un qualunque sia “cambiamento”, tanto in positivo quanto anche in negativo.

Ebbene, tanto premesso, e doverosamente messa da parte ogni pur minima intenzione di affrontare complicate “speculazioni” ideologico-filosofiche in argomento, l’accento testé posto su quei concetti basilari vuole avere il solo merito di guidare l’estrinsecazione di un ragionamento lineare sull’attuale quadro politico del Paese. Infatti, le vicissitudini parlamentari delle ultime turbolente settimane, a mio modestissimo avviso, come pure il significato del cosiddetto “mandato esplorativo” conferito da ultimo alla terza carica dello Stato nella persona di Roberto Fico non possono essere debitamente compresi e soppesati laddove si pretenda di interpretarli prescindendo dall’accennato paradigma introduttivo e dalle sue articolate equazioni espressive e rappresentative “latu sensu” intese. Tanto più allorquando l’interrogativo dominante, nel suo momento risolutivo del conflitto, debba necessariamente riflettere all’esterno tutte le complicanze esegetiche relative alle scelte che dovranno porsi, sia pure solo in un secondo tempo, come vincolanti fino alla conclusione naturale dell’attuale legislatura (sempre che si riesca a preservarla).

In buona sostanza: è possibile garantire un pur minimo concetto di “governabilità interna” anche in mancanza, o quasi, della sua imprescindibile componente dogmatico-genetica costituita dalla “stabilità” politica? Detto altrimenti, e trasponendo il piano concettuale teorico su quello attuativo pratico: se è vero, come è vero, che Giuseppe Conte si è accreditato all’interno dell’Eurozona per essere l’Uomo degli “assetti stabili” allora, cronoprogramma o non cronoprogramma poco importa, con buona pace di Matteo Renzi, come si può oggi anche solo pensare di ricompattare una stessa maggioranza di governo all’interno di quello che fu il perimetro originario poggiandone le “fondamenta” (ossia la riproposizione di Giuseppe Conte alla Presidenza del Consiglio) sull’unica sua colonna “instabile” dell’intero architrave, ossia sulle iniziative e sulle incomprensibili pretese politiche del leader “peso piuma” di Italia Viva, che proprio su quelle “fondamenta” non ha mai tralasciato di esternare le sue riserve, e il cui fine ultimo è parso essere il perseguimento dell’obiettivo della dissoluzione del Partito Democratico e, con esso, della definitiva archiviazione di ogni esperienza di Governo che possa rinvenire il suo epicentro strumentale e funzionale nella figura del noto e fin troppo amato Professore?

Quale utilità pratica si prospetterebbe per il Paese se l’instabilità provocata dal “rottamatore seriale” dovesse risolversi solo ed unicamente in un ricambio parziale nella circolazione del ceto dirigente rappresentativo, specie di quello apicale, orchestrato solo per tentare di accrescere la propria personale incidenza all’interno del rinnovato vecchio esecutivo giallo rosso? Le risposte, a mio modestissimo modo di considerare, sono talmente scontate da apparire come del tutto direttamente conseguenti alla retorica degli interrogativi proposti siccome dipendenti dall’esatta individuazione dell’interesse primario “conseguendo” da Colui che alla crisi ha dato volontariamente impulso.

Intanto, perché se davvero si volesse garantire la “governabilità” nel pieno esercizio delle sue componenti qualificanti, ossia quella della “stabilità” e quella, non secondaria, dell’“efficacia decisionale”, allora sarebbe necessario puntare alla formazione di una maggioranza più ampia, magari tipo “Ursula” per intenderci (con tutte le difficoltà del caso), che, stabilito un Programma ampiamente condiviso e ragionato, avesse il merito, tra l’altro, di fungere da contrappeso agli eventuali contraccolpi provenienti dal leader di Italia Viva ridimensionandoli grandemente. Quindi, perché se l’intento di Matteo Renzi fosse davvero quello di boicottare il progressivo procedimento di fusione naturale tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle (che in diversi miei interventi ho avuto modo di auspicare) al fine ultimo di rilanciare la sua immagine politica di futuro fondatore di un inedito centro sinistra riformista, progressista e liberale, allora, e all’evidenza, continuando i suoi ingenui interlocutori ad affidarsi ad un galeotto e confusorio “misunderstanding” comunicativo-funzionale condotto sul gioco sottile della mistificazione tra “mezzi” (i contenuti programmatici) e “fini” (designazione di incarichi e poltrone), si verrebbero a creare, proprio nel momento apparentemente risolutivo del conflitto, contrasti insormontabili siccome geneticamente riconducibili ad interessi contrapposti e incompatibili negli esiti, che avrebbero il solo effetto di spingere prematuramente il Paese verso le elezioni prima dello scoccare dell’attesissimo semestre bianco. Infine, perché ad esaminare bene le circostanze nel loro cronologico susseguirsi, se ne ricava una impressione piuttosto amara, la quale ripone tutta la sua verosimiglianza nella quotidiana constatazione dell’inutilità di una “crisi alla cieca” che se già era assai difficile decifrare nel suo momento genetico, allo stesso modo è oggi assai più complesso definire sul piano finalistico per mancanza di consapevolezza in tal senso da parte del suo stesso irresponsabile promotore, il quale, nel corso della sua esperienza politica, si è spesso contraddistinto per la sua connaturale attitudine a “dedicare energie (e mezzi) alla conquista interna del potere” (per riprendere, astraendola dal contesto, una espressione di Giulio Andreotti) piuttosto che a riflettere quelle stesse energie nel perseguimento concreto dell’“approfondimento sociologico e programmatico” (per riprendere, ancora una volta astraendola dal contesto, una espressione di Giulio Andreotti) finalisticamente orientato al conseguimento del bene comune.

Personalmente, considerate le ultimissime dichiarazioni cautamente ottimiste rilasciate da Roberto Fico sull’esito delle consultazioni odierne, e considerate pure le dichiarazioni volutamente sibilline del leader di Italia Viva che appare voler procedere nelle trattive sulla base della “convenienza del momento” senza avere ancora ben chiaro l’obiettivo generale ma solo quello particolare inerente il prossimo “ruolo” di Giuseppe Conte, ritengo che i giochi siano ancora ben lontani dalla loro definizione utile. Il punto di frattura per Matteo Renzi resta sempre e comunque la Presidenza del Consiglio dei Ministri, o meglio, la sua espressione soggettiva.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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