S e si ritiene che non esista nel nostro Paese una “questione meridionale”, ma solo un alibi o un pretesto dei meridionali, come vanno sostenendo in parecchi, si potrà dire altrettanto per la “questione sarda”, che dal Tuveri in avanti ha tenuto banco nelle politiche rivendicazioniste delle nostre classi dirigenti? Si tratta di una domanda che è giusto porsi allorquando pare affacciarsi prepotentemente, con il suo carico di egoismi e di pretesti antagonistici, una pericolosa “questione settentrionale”.

Si è quindi dell'avviso che si tratti di un problema da porsi, da dover affrontare con responsabile attenzione, sul come affrontare il divario qualitativo e quantitativo, dai comfort di vita alle disponibilità economiche, esistente fra le comunità sarde e quelle dell'altra Italia.

Bisognerebbe cominciare ad interrogarsi se la strategia rivendicazionista tradizionale, tesa ad ottenere maggiori risorse da Roma o da Bruxelles, in una logica soltanto quantitativa, abbia prodotto vero sviluppo economico o solo crescita sociale. Bisognerebbe capire se i gruppi dirigenti selezionati nel tempo, o più spesso cooptati dall'alto, si siano affermati soltanto in ragione delle loro capacità di rappresentare le emergenze e di rivendicare interventi e risorse da Roma o da Bruxelles, e non per le loro capacità di dare idee ed indirizzi validi per “continentalizzare” la qualità della vita di noi sardi. Alle importanti risorse impegnate, ai parecchi tentativi immaginati come risolutivi, non sempre avrebbero corrisposto delle scelte politico-strategiche degne di questo nome. (...)

SEGUE A PAGINA 20
© Riproduzione riservata