P er chi ben la conosce, sa che la storia dell'industrializzazione in Sardegna è andata sempre di pari passo, con i suoi ripetuti “avant e indré”, con quella dell'energia. Perché l'energia è considerata l'elemento vitale d'ogni industria, da quella manifatturiera a quella digitale.

Ed è per questo che affrontare la questione energetica - nell'origine, nelle disponibilità e nei costi - è divenuto determinante per porre fine al declino industriale che affligge l'Isola. Si è ora aggiunta anche l'urgenza, poiché fra sei anni si dovranno chiudere, per disposizione governativa, le due centrali a carbone (Fiumesanto e Portovesme) che oggi producono circa il 40 per cento del totale dell'elettricità dell'isola.

Per le coincidenze storiche andrebbe ricordato come, giusto un secolo fa, la prima industrializzazione sarda la si dovette all'elettricità prodotta dalle dighe fluviali volute da Angelo Omodeo e alle iniziative elettrochimiche di Giulio Dolcetta; un rapporto che si sarebbe ripetuto mezzo secolo dopo, negli anni delle grandi industrie energivore, con l'elettricità low-cost prodotta dal carbone del Sulcis per l'iniziativa di Giorgio Carta e con il sogno autonomistico dell'Ente elettrico sardo di Pietro Melis.

Questi i due principali passi in avanti, mentre per quelli all'indietro occorre rifarsi alla progressiva marginalizzazione della primogenita fonte energetica rinnovabile (l'acqua dei nostri fiumi) e agli incerti produttivi delle miniere carbonifere del Sulcis. (...)

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