I l 2021 è partito con la guerra incivile americana. Le immagini della rivolta di Washington non sono il The End di uno scontro, non stanno scorrendo i titoli di coda, è solo il picco sismografico di un conflitto in corso, sono le due Americhe in rotta di collisione. Cosa accadrà? Proviamo a riordinare il caos.

Donald Trump ha fatto la cosa sbagliata agitando la folla, l'ha caricata a molla e questa naturalmente è andata alla conquista di Capitol Hill. Sono cose che di solito finiscono male, anche perché Trump non è Lenin che assalta il Palazzo d'Inverno quasi senza sparare un colpo di cannone. Voleva mettere all'angolo i repubblicani che lo hanno tradito, è finito per cascare nella buca che ha scavato con le sue mani, un classico.

Joe Biden ha fatto la cosa giusta quando ha chiesto a Trump di andare in tv per fermare la folla, su questo dettaglio della giornata si sono soffermati in pochi e invece è un fatto importante. Biden si è mostrato fermo e calmo. La tregua si fa con il nemico. E Trump, pur senza mai fare retromarcia sui brogli, ha invitato i manifestanti a andare a casa.

La richiesta di Biden è stata un passaggio di realismo, la presa d'atto che la leadership di Trump sulla Red Nation è qualcosa con cui bisogna fare i conti. Ventiquattro ore dopo, il pragmatismo è evaporato dalla casa dei democratici e Nancy Pelosi ha chiesto la rimozione di Trump dalla presidenza in base al 25esimo emendamento.

N on è una grande idea, perché in un momento in cui c'è bisogno di sangue freddo, si alimenta il conflitto: Trump è uomo sopra e sotto le righe, ma pensare alla sua defenestrazione è rischioso, perché non è un presidente per caso, è stato eletto nel 2016 con un risultato sorprendente, ha vinto dove regnavano i democratici, nel 2020 ha perso, ma è il presidente in carica più votato della storia. Rimuovere Trump prima del 20 gennaio significa dare fuoco alle polveri, aprire la porta al rischio di una guerra civile.

Parte dei dem e dell'establishment sembra non aver compreso - al pari dei molti intelligenti a prescindere che conoscono solo l'America in cartolina - che il problema non finisce con The Donald, perché è in corso la guerra dei due mondi, da una parte i conservatori e dall'altra i progressisti, in mezzo, milioni di proiettili, la desolazione degli Stati DisUniti d'America, un paese a mano armata e in pieno sgretolamento e smarrimento. Un declino che va avanti da almeno vent'anni.

Nel 2000 George W. Bush entrò alla Casa Bianca grazie a una decisione della Corte Suprema sul voto della Florida. Allora furono i democratici a contestare le elezioni, chiedere il riconteggio, agitare lo spettro dei brogli. L'intervento della Corte Suprema mise fine allo stallo, pose il necessario sigillo istituzionale (cosa che non è successa oggi e invece era necessaria per assicurare la pax politica, la parola di un'autorità riconosciuta da tutti), permise alla vita istituzionale di fare il suo corso. Era solo il primo gong, la società americana stava accumulando tossine letali. Pochi mesi dopo, l'11 settembre 2001, l'America finì sotto attacco nel suo territorio per la seconda volta nella storia, da Pearl Harbor alle Torri Gemelle, la Fortezza violata. Bush rispose con due guerre, l'invasione dell'Afghanistan (2001) e la campagna in Iraq (2003). Secondo il Watson Institute della Brown University fino al novembre del 2018 i conflitti post 9/11 hanno causato mezzo milione di morti (tra cui 7000 militari e 7,820 contractors americani) e 53,700 soldati e marinai feriti, molti dei quali mutilati; il costo delle campagne miliari è stato pari a 6,400 miliardi di dollari. Uno shock profondo.

Mentre le truppe erano con i “boots on the ground” in paesi lontani di cui l'americano medio ignora la posizione sulla mappa, gli Stati Uniti stavano per entrare in un territorio nuovo/vecchio, quello della crisi finanziaria dei mutui subprime che a sua volta avrebbe fatto (ri)emergere il “forgotten man”, l'uomo dimenticato, per la prima volta evocato dal presidente Franklin Delano Roosevelt durante gli anni terribili della Grande Depressione. Fu così che le elezioni del 2007 furono vinte da un uomo che pronunciava le parole “Hope” e “Change”, speranza e cambiamento, Barack Obama, il primo presidente nero della storia americana. Fu una svolta, ma senza gloria. Obama rimise in piedi l'industria e la finanza con il lavoro di Ben Bernanke alla Federal Reserve, salvò la Motor City, Detroit, dal fallimento, ma le contraddizioni del Made in America altrove e non in patria, la mancanza di lavoro e reddito, piegarono anche la sua presidenza e nel 2016, dopo 8 anni di regno obamiano, di retorica sul “noi e loro”, una politica estera fallimentare arrivò lui, Donald Trump.

In quattro anni ha sempre schivato la guerra, ma ha trovato sulla soglia della Casa Bianca il coronavirus e una sconfitta inattesa. Così in una sera gelida d'inverno si è improvvisato rivoluzionario. E la rivoluzione, come sempre accade, se lo è mangiato. Sono ore delicatissime, il sonno della ragione genera mostri, speriamo che non si mangi anche l'America.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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