Q uando nel 1992 è pubblicato “La fine della storia e l'ultimo uomo” di Francis Fukuyama, professore americano di economia politica, o meglio quando il libro diviene di dominio pubblico e penetra profondamente nella cultura e nella psicologia degli studiosi di tutto il mondo (grazie anche all'impatto del titolo, hollywoodiano più che scientifico), un enorme sospiro sembra attraversare non solamente le aule e gli ambienti accademici, ma anche la trasversalità degli scranni politici.

Si potrebbe dire, col senno di poi, che un'intelligente provocazione, imbevuta pariteticamente di superficialità americana e di apocalittico spirito giapponese (l'autore non tradisce le sue origini), viene invece presa sul serio dai lettori sino ad assurgere a obiettivo strategico di ordine economico, sociale e persino filosofico.

Potenza della semplificazione: in fondo Fukuyama non fa che prendere atto di alcuni macro-trend (l'evoluzione delle democrazie liberali e del capitalismo del libero mercato, fenomeni prettamente occidentali) e indicare un possibile punto di convergenza in una forma di umano governo che inglobi questi trend portandoli a sintesi.

Non uso la sua definizione “final form” perché l'aggettivo “finale” rimanda sempre a brutti ricordi, ma, insomma, Fukuyama indica in questa modalità il vertice dello sviluppo socio-economico e culturale in atto, pertanto lo strumento migliore per risolvere i problemi del pianeta, e dunque, per lui, è la fine della storia. (...)

SEGUE A PAGINA 12
© Riproduzione riservata