Ha chiesto disperatamente un visto alle autorità Usa per stare accanto al figlioletto in agonia, ma quando l'ok è finalmente arrivato per il piccolo era ormai troppo tardi.

È una storia che suscita commozione - e anche rabbia - quella di Shaima Swileh, donna di origine yemenita, cui è stata negata la possibilità di accompagnare alla fine il suo piccolo Abdullah, due anni appena, affetto da una gravissima malattia al cervello e in cura all'ospedale Berioff di San Francisco.

Tutta colpa del Travel Ban, ovvero il divieto di ingresso negli Stati Uniti imposto dall'amministrazione Trump ai cittadini di alcuni Paesi considerati "culle del terrorismo". Come lo Yemen, appunto.

E così a Shaima, sposata con un uomo in possesso della cittadinanza americana, è stato impedito per mesi di volare in California, dove Abdullah era ricoverato.

La famiglia, riferiscono i media Usa, le ha provate tutte per fare in modo che la donna ottenesse l'ok all'ingresso su suolo statunitense.

A sbloccare la situazione, dopo mesi, è stata una causa legale contro le istituzioni americane, al termine della quale il giudice ha concesso a Shaima il visto.

A quel punto la donna è salita su un aereo ed ha potuto finalmente raggiungere il suo bimbo.

Ma è potuta restargli accanto solo per pochi giorni, quando invece avrebbe potuto dargli affetto per settimane e settimane, se solo le maglie della legge di Washington non fossero state così insensatamente strette. Dure. Insensibili.

Abdullah, infatti, è morto venerdì scorso.

"Abbiamo il cuore spezzato per tutto quello che è accaduto", il laconico commento di Alì Hassan, padre del piccolo e marito di Shaima, che ha ricevuto la solidarietà di moltissime persone.

Non quella, però, di chi il Travel Ban ha voluto e votato.

(Unioneonline/l.f.)
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