All’alba di sabato 7 ottobre Hamas ha avviato a sorpresa un attacco su larga scala via terra e via aria contro Israele dalla Striscia di Gaza. Non solo con il lancio di migliaia di razzi: per la prima volta i miliziani hanno sfondato le barriere che separano il territorio dal resto del Paese, uccidendo centinaia di civili, il vero obiettivo di questo attacco, e prendendo degli ostaggi da usare come scudi umani nella Striscia, qualora Israele decida di invaderla. La risposta di Israele, totalmente colto alla sprovvista in quello che viene definito uno storico fallimento della sua intelligence, è stata altrettanto violenta, con morti, feriti e lo stop alle forniture di elettricità, cibo e acqua a Gaza. Un blocco che piegherà la popolazione che riuscirà a sopravvivere.

Ecco cinque domande e risposte per capire cosa sta accadendo in Israele.

Che cos’è Gaza? La Striscia di Gaza è un territorio molto piccolo, ha una superficie di circa 360 chilometri quadrati, ed è letteralmente una striscia di terra stretta tra l’Egitto a sud, il Mar Mediterraneo a ovest e Israele a nord e a est. Con un embargo Israele controlla tutto quello che entra e esce dalla Striscia, territorio densamente popolato: ci vivono circa 2,3 milioni di persone, la maggioranza in condizioni di povertà estrema. Politicamente è stato conquistato da Israele dopo la guerra del 1967 contro l’Egitto: Israele ha governato il territorio fino al 2005, quando ha deciso un ritiro unilaterale di militari e ottomila coloni. 

Che cos’è Hamas? Hamas è una delle fazioni più violente della causa palestinese. Un gruppo radicale, islamista e di matrice fondamentalista nato negli anni Ottanta riconosciuto come terrorista da gran parte del mondo occidentale, in testa Ue e Usa. Nel 2006 vincendo le elezioni e nel 2007 con una guerra civile ha strappato il controllo di Gaza all’Autorità Palestinese, guidata dai moderati di Fatah che governano la Cisgiordania. Troppo moderati, secondo i miliziani di Hamas, che vogliono la nascita di uno Stato palestinese attraverso la distruzione totale di Israele. E ripetutamente chiedono ai loro simpatizzanti di uccidere ogni ebreo in qualsiasi modo.

Perché proprio adesso? Posto che il Medioriente è da decenni una polveriera, il conflitto da almeno un paio di anni si era ridotto di intensità. Eppure dagli inizi del 2023 la situazione si è fatta sempre più tesa con il moltiplicarsi di episodi violenti, come le incursioni dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, gli attentati a Gerusalemme Est e i continui lanci di razzi da Gaza che sempre però venivano intercettati da Iron Dome, il sistema anti-missilistico di Israele. Un acuirsi delle tensioni che coincide con l’insediamento del nuovo governo Netanyahu, alla fine di dicembre: primo ministro per sei mandati, stavolta si è messo a capo di un esecutivo considerato il più di destra nella storia di Israele, con partiti di estrema destra e ultraortodossi nella coalizione. Non solo: il Paese è più diviso che mai per una discussa riforma giudiziaria che ha provocato una sorta di paralisi istituzionale. Basti pensare ai tantissimi riservisti dell'esercito pronti a non presentarsi al richiamo in nome della difesa della democrazia e della Corte Suprema, minacciate a loro giudizio da quella riforma. Le restrizioni all’accesso all’area sacra di Al Aqsa e i negoziati per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita, dopo la ripresa degli “accordi di Abramo”, hanno aggravato la rabbia palestinese. E iraniana, come vedremo dopo. 

Quando è nata la questione mediorientale? Non basterebbe un’intera bibliografia per rispondere a questa domanda ma a grandi linee: l’oggetto del contendere è la terra dello Stato che oggi si chiama Israele, patria storica del suo popolo per gli ebrei ma abitata da secoli dagli arabi palestinesi. Alla fine del XIX secolo si diffuse l’ideologia del sionismo, ossia il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico. Gli inglesi che dopo la prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’impero ottomano ottennero il controllo della Palestina con un mandato durato vent’anni, sostennero l’immigrazione degli ebrei in quel territorio: nel 1922 erano l’11% della popolazione, il 32% nel 1947. Il tutto nonostante i moti di protesta arabi. La nascita dello Stato di Israele nel 1948, dopo il ritiro degli inglesi, segnò l’inizio delle ostilità che portarono subito a uno scontro armato con i Paesi arabi (Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq) poi alla guerra di Suez del 1956, alla guerra dei sei giorni del 1967 e alla guerra dello Yom Kippur del 1973. Quella che, guarda caso, è scoppiata proprio il 6 ottobre di cinquant’anni fa. I palestinesi in questi decenni (segnati da guerriglie e “intifade”, in arabo "rivolta" e "sollevazione") sono stati relegati a Gaza o in Cisgiordania, territori separati da un muro dove però si fa sentire la presenza militare israeliana e accelera la politica di espansione delle colonie, insediamenti israeliani considerati illegali dalla comunità internazionale.

Quali sono i rischi di questo conflitto? Sostanzialmente due: che l’Europa torni a essere teatro di attacchi terroristici, come conseguenza collaterale di una riesplosione di antisemitismo e jihadismo. E che entrino nel conflitto il Libano e soprattutto l’Iran, i due principali sostenitori della causa palestinese. Mentre Israele gode del favore quasi incondizionato di tutto il blocco occidentale, e infatti il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha già promesso al governo di Netanyahu aiuti e sostegno militare, si accende il fronte nord di Israele al confine con il Libano dominato dagli Hezbollah, il partito armato filo-iraniano. E continua ad aleggiare l'ombra del potente Iran, che finanzia Hamas e avrebbe dato il via libera all’operazione  “Alluvione Al Aqsa”, fornendo ad Hamas (che non ha alcun controllo dello spazio aereo e marittimo) armi e tecnologia militare. La Repubblica islamica è quella che, dalla debacle di Israele, più di tutti ha da guadagnare.

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