Trent’anni dopo, la verità su quanto accaduto in Via Mariano D’Amelio sembra avvolta dalla stessa enorme nube nera di fumo e mistero che all’improvviso s’è innalzata sul cielo di Palermo il 19 luglio del ’92, quando alle 16:58 una Fiat 126, imbottita da 90 chilogrammi di esplosivo, è stata fatta saltare in aria con un telecomando a distanza. Un boato e poi il silenzio, le sirene e le notizie sui giornali. Cinquantasette giorni dopo la morte di Giovanni Falcone, era stato ucciso il giudice Paolo Borsellino, che era andato a trovare la madre, e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Tante le domande, gli interrogativi i processi e i misteri che continuano a rincorrersi ormai da anni. Le risposte? Poche.

L’ultima novità su Via D’Amelio arriva dal tribunale di Caltanissetta che ha ritenuto di far cadere l’aggravante mafiosa, dichiarando prescritte le accuse nei confronti dei poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei, accusati di aver depistato le indagini sulla strage. Michele Ribaudo è stato assolto perché “il fatto non costituisce reato”. Tutti e tre facevano parte della squadra mobile della polizia di Palermo, guidata da Arnaldo La Barbera, e, secondo la procura di Caltanissetta, avevano indotto e forzato le false confessioni di Vincenzo Scarantino, il falso pentito di Cosa Nostra.

“Il 19 luglio del 1992 era una domenica. Io, mia moglie Connie e i nostri due figli avevamo preso un bilocale in affitto a San Martino delle Scale, un villaggio in cima alle colline che sovrastano Palermo, per sfuggire alle infuocate temperature dell'estate siciliana. Alle quattro e mezzo del pomeriggio eravamo scesi in auto per rientrare a casa. Nel momento in cui accostai la macchina davanti al portone di via Giorgione, dove abitavamo, sentimmo un boato sordo spandersi sulle nostre teste – racconta Enzo Mignosi, giornalista, scrittore, al tempo corrispondente del Corriere della Sera dalla Sicilia - La macchina tremò per qualche istante. Erano le 16,58. Vidi decide di persone affacciarsi ai balconi. Centinaia di occhi puntati sul Monte Pellegrino. Non ci volle molto per capire che era stata un’esplosione e lo dissi a mia moglie: ‘è una bomba’”.

“Le diedi le chiavi di casa e mi diressi verso il centro della città mentre cominciava l’incessante lamento delle sirene. Ero sicuro che fosse toccata a Paolo Borsellino. Decisi di seguire un’ambulanza che sfrecciava verso la zona dei cantieri navali. L'auto si incuneò in via Autonomia Siciliana, io fui fermato da un cordone di sicurezza. Proseguii a piedi. In via D’Amelio vidi le scene dell'inferno – aggiunge Mignosi - Decine di auto ridotte in frammenti, altre in fiamme, corpi smembrati, particolari raccapriccianti. Un caos pazzesco. Provai un orrore indescrivibile. Non si capiva quante fossero le vittime, ma già circolava il nome di Borsellino. Una folla immensa stava attorno ai resti carbonizzati di una Croma. Era la macchina del magistrato. Avrei voluto vedere meglio ma non mi lasciavano avvicinare. Si percepiva aria di guerra. Era difficile in quelle condizioni placare la tempesta emotiva e calarsi nel ruolo di cronista per raccontare l'ennesima grande tragedia siciliana. Ma questo mi toccò fare. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima”.

Angelo Barraco

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