È possibile la attuazione di forme di “giustizia” cosiddetta “riparativa” allorquando la politica, personificazione astratta di un legislatore troppo attento alle esigenze elettorali dei partiti e alla traduzione delle istanze preventive di politica criminale in forme di banalissimo populismo penale, dimentica di essere essa stessa soggetta al principio di legalità siccome indirizzata a favorire la piena attuazione dei diritti individuali tradizionalmente intesi tanto delle vittime quanto dei loro carnefici?

Questo è stato il dubbio che ha attraversato il mio pensiero nell’apprendere della visita di Marta Cartabia in Sardegna in occasione della Conferenza sulla Giustizia Riparativa: una “passerella” tanto inutile quanto sottilmente ipocrita se parametrata alle difficoltà di esprimere, in maniera chiara, il contemperamento bilanciato tra le esigenze sanzionatorie specificamente sussistenti all’interno delle singole comunità e l’imposizione di una rivalutazione globalmente intesa dell’iter sanzionatorio medesimo. E se è vero, come è vero, che la pena non dovrebbe mai ridursi al rango di mera vendetta afflittiva, tuttavia, è altrettanto vero che essa deve essere tale da impedire al reo di procurare ulteriori danni alla propria comunità di riferimento. Per questo, in ogni caso, è senz’altro giusto che la pena sia sempre parametrata al disvalore sociale del fatto commesso, ed è senz’altro giusto che quella stessa pena, anche nella sua concretizzazione più aspra, debba essere senz’altro effettivamente espiata se davvero vuole proporsi, quale primo obiettivo, la piena attuazione delle finalità rieducative tanto decantate ma poco o nulla realizzate, paradossalmente, proprio per l’incapacità di attualizzare il principio di effettività della pena. Al punto tale che, oggi come oggi, anche il solo parlare seriamente di “giustizia rigenerativa”, per quanto in linea teorica corretto “in ipotesi”, appare una pia illusione destinata ad infrangersi, salvo rarissimi casi, sugli scogli di una realtà poco propensa a dispensare il proprio “perdono” a tutto vantaggio di coloro che ne hanno brutalmente interrotto la serena quotidianità.

Intendiamoci tuttavia: se il fine appare utile, non è affatto detto che, contestualmente, la sua attuazione in concreto, laddove possibile, corrisponda all’effettiva esigenza di “giustizia” della vittima la quale, da sempre, ha costituito l’elemento fragile del complesso iter sanzionatorio siccome priva, malgrado la propria “posizione” processuale privilegiata, di forme di tutela reale che dubito possano realizzarsi all’interno di un contesto para-processuale tendente al coinvolgimento attivo della vittima medesima, dell’agente quale parte fortemente interessata ad “uscire” quanto più agevolmente da un percorso sanzionatorio piuttosto farraginoso, e della stessa comunità civile impegnata nella ricerca di soluzioni atte a far fronte all’insieme dei bisogni scaturiti dal reato e che, nella gran parte dei casi, è priva (la comunità si intenda) degli strumenti di interlocuzione utili al perseguimento di un risultato tutto sommato incerto nell’ “an” e nel “quando”.

Insomma: siamo sicuri che nel contesto del nostro sistema penalistico sia possibile, e/o anche corretto sul piano morale, smettere di considerare il reato quale mera violazione di una norma e la pena quale sua conseguenza giuridica per accedere ad una versione mitigata del crimine quale violazione delle persone e correlativo obbligo di porre rimedio al torto subito? Siamo sicuri che dal punto di vista delle vittime siffatto approccio non sia recepito quale ulteriore mortificazione delle proprie ragioni finalizzato unicamente ad avvantaggiare, rendendolo meno gravoso, l’iter sanzionatorio riferibile al reo? Siamo sicuri che un approccio di tal fatta non contribuisca ad instillare, nella mente di coloro portati a delinquere, la convinzione perversa che non esistano conseguenze rilevanti sul piano sanzionatorio? Siamo sicuri che sia effettivamente possibile la cosiddetta responsabilizzazione dell’offensore tale da comportare una presa di coscienza sincera delle conseguenze delle proprie azioni?

Ebbene, se mi è concesso esprimere la mia personale perplessità, sarei propensa a ritenere che “sarà pure, ma non ci credo”: il reato, per quanto si voglia epurarne il concetto, non è mai una semplice fattispecie “esperienziale” minimamente lesiva del singolo, né si presta sempre e comunque ad essere riparato attraverso forme di componimento concordate. Forse il Guardasigilli avrebbe dovuto calarsi dall’iper-uranio cattedratico per conoscere più diffusamente i meccanismi mentali che governano i ragionamenti di coloro che appaiono “rotti” a forme di criminalità imponente e particolarmente offensiva che mal si prestano a condotte riparatorie di qualsivoglia tenore. Tanto più allorquando, nella gran parte dei casi, siano vissute, quelle medesime condotte riparatorie, quasi alla stregua di “un modo come un altro” per ottenerne un beneficio in termini di pena da espiare. Non escludo che possano esistere “realtà virtuose”, ma fin tanto che il paradigma sociale di riferimento resterà ancorato ad una visione carcero-centrica sul piano della comminatoria edittale, probabilmente corretta in funzione espiativa sebbene mortificata troppo spesso a livello attuativo, nessuna forma reale di giustizia rigenerativa potrà mai affermarsi, considerato pure che non ogni conseguenza derivante da reato si presta ad essere “riparata”.

Forse il Ministro Cartabia stenta a prendere atto del fatto che una reale riforma del sistema sanzionatorio non può non passare attraverso un concreto confronto parlamentare il quale, fino ad oggi, ed a ragion veduta in considerazione delle istanze provenienti dalla società civile, ha ritenuto di esprimersi attraverso un contraddittorio articolato finalizzato all’ampliamento delle cornici edittali, rigorosissime nella loro espressione massima le quali, a loro volta, hanno stentato, ed ancora stentano, a trovare attuazione siccome il Giudice, chiamato troppo spesso ad assolvere ad un ruolo di “supplenza giudiziaria”, e sospinto da una esigenza di contemperamento, rischia di mal promuovere le regole di giudizio della materia specifica traendo sollecitazione dai propri spazi di discrezionalità, vanificando così, l’aspetto afflittivo atteso.

Forse, ai fini della riforma, sarebbe stato più utile intervenire a monte piuttosto che a valle ma, laddove non si conosca in concreto la realtà giudiziaria, come pare nel caso Cartabia, non ci si può attendere una realistica riforma organica, utile nei suoi effetti e satisfattiva sul piano socio-esistenziale siccome posta in essere in fretta e furia solo per rispondere ad un “diktat” europeo calato dall’alto dell’inconsistenza istituzionale e, per ciò stesso, in alcun modo calibrato sul piano della compagine civile.

Quello sulla Giustizia è argomento serio, e chi davvero conosce la Legge la teme. E la deve temere. Questo avrebbe dovuto essere il punto di partenza nel pieno rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti tanto delle vittime quanto degli autori del reato. Le pie illusioni lasciamole ai pensatori. Il problema è che mi pare ci troviamo ancora una volta, e nonostante i pretesi “migliori”, con un nulla di fatto.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)

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