Un’isola isolata da tutto, dove ogni piccola cosa sembra preziosa e rara. Così appariva l’Asinara durante il periodo del carcere. Misteriosa e ricca di storie, diverse ma legate tra loro. Il medico Antonello Flumene, per 15 anni, dall’83 al ’98, impegnato a curare i malati dell’isola, ha raccontato il suo rapporto con i pazienti, dai detenuti alle guardie penitenziarie, dai militari ai residenti, in servizio presso il carcere di massima sicurezza di Fornelli. «Ho conosciuto delle persone che mi hanno insegnato come comportarsi in una galera. Un luogo dove si stava bene soltanto se avevi la capacità di adattarti alla vita dell’isola. Molti colleghi, infatti, avevano abbandonato subito l’Asinara». Così ha raccontato in occasione dell’evento intitolato “Emozioni”, organizzato presso la sede dell’Ente Parco nazionale dell’Asinara, alla presenza di Carlo Hendel, organizzatore dell’iniziativa insieme al commissario, e al direttore del Parco, Gian Carlo Muntoni, e Vittorio Gazale. «I detenuti apparivano non come persone cattive ma soggetti dotati di grande umanità».

Il suo primo giorno sull’isola, però, fu traumatico con un risvolto positivo che cambiò per sempre il suo approccio con i carcerati. Giunto presso il carcere di Fornelli, un infermiere lo accolse con una pila di circa 80 cartelle cliniche, appartenenti ai detenuti da esaminare. Si mise subito al lavoro. Cominciò dalle 7 del mattino. Il capo diramazione gli impartì alcune regole di comportamento da tenere all’interno della diramazione centrale del carcere. Rinchiusi c’erano ergastolani e detenuti pericolosi.

«Per raggiungere l’ambulatorio medico le consiglio di attraversare i corridoi, dove si affacciano tutte le celle, camminando il più distante possibile dalle sbarre, perché il detenuto la potrebbe afferrare e sequestrare», mi disse il capo diramazione. «Sentivo i miei passi e quelli degli agenti di custodia che attraversavano i corridoi e il rumore delle mandate delle chiavi che aprivano i cancelli. Nell’ultimo tratto mi colse un momento di paura. I passi dei militari non si udivano più. Improvvisamente qualcuno mi afferrò alle spalle, mi attorcigliò il braccio sul collo e mi immobilizzò». Incominciò a diventare pallido. «Lei è il dottore? Che squadra di calcio tifa?», mi chiese. «Pensai che se avessi sbagliato squadra lo avrei pagato caro». Rispose: «Tifo l’Inter». Il premiò fu una serie di baci sulla nuca perché interista anche lui. Uno dei più temibili carcerati, con sette ergastoli da scontare. Un metro e 98 centimetri di altezza, condannato per diversi omicidi, killer di bambini, ma detenuto sconsegnato, tra quelli che per buona condotta sono autorizzati a svolgere attività e vivono fuori dalla cella. «Le guardie giurate mi dissero che quello era stato il mio battesimo, organizzato con la loro complicità».    

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