Santoru, l'arbitro caduto dal cieloAmico speciale che amava il calcio
Riccardo Santoru, l'arbitro di calcio morto a 21 anni durante un test atletico all'ex campo Coni di Cagliari, nel ricordo dei suoi genitori. di STEFANO SALONEPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
di STEFANO SALONE
«Di me ho lasciato un ricordo indelebile. Ma ingombrante almeno quanto la mia altezza: poco meno di due metri. Vinte dal sonno, le mie gambe troppo lunghe penzolavano giù dal letto a castello nella stanza dove dormivo con mio fratello: io su, Alberto giù. Mamma la mattina apriva la porta solo a metà, rimboccava i piedi sotto la sponda del materasso per poter entrare senza sbattere la testa sulle mie caviglie, poi intonava il buongiorno di tutti i genitori, " ragazzi, è ora di alzarsi ". Un balzo e via: 87 chili in volo verso il pavimento. Niente male per un arbitro di calcio, ex giocatore di basket, ex campione sardo di canottaggio, ex studente di Ingegneria, ex viaggiatore. Ex vivo. Mi hanno assegnato un posto come tanti nella corsia dei morti del 2009. Un numero a caso nella sequenza di nomi e date del cimitero di San Michele, alla periferia di Cagliari. Davanti alla mia tomba non mancano quasi mai fiori freschi. Molti. Non solo quelli portati dai miei genitori. E questo qualcosa vorrà pur dire. È più importante quel che sono stato o l'immagine che di me è sopravvissuta? Me lo sono chiesto più volte negli ultimi quattordici mesi. Da quando i consigli di mamma e papà sono diventati preghiere. Per un figlio rispedito troppo presto al mittente da una morte veloce come un fulmine».
«Mi chiamo Riccardo Santoru, ho 22 anni. Anzi, li avrei. Se il mio cuore non avesse smesso di battere la mattina del 4 settembre. Mentre correvo i tremila metri nella pista dell'ex campo Coni di Cagliari, quello che adesso porta il mio nome. Sono crollato a terra a metà gara, durante i test atletici per valutare la preparazione fisica degli arbitri di calcio alla vigilia dell'inizio dei campionati regionali. Sul referto i medici hanno scritto "decesso per arresto cardiaco". Ma ero sano come un pesce e con un cuore forte così. « Hai un fisico da corazziere, sei un gigante », mi dicevano, ma questo non è bastato. La mia è una morta bianca. Inutile cercare il perché, la causa è una sola: nessun infarto, né malattia congenita, era semplicemente arrivato il mio momento. E, per uno come me che ha sempre avuto Dio per amico, basta e avanza».
«Sono il primo di tre fratelli e due sorelle. La terza è in arrivo: non ho fatto in tempo a vederla nascere perché è ancora nella pancia di mamma e non potrò accompagnarla all'asilo come facevo tutte le mattine con Cecilia. L'ho imparato sin da piccolo, per una vita che se ne va, una ne arriva. Ma a casa mia, al terzo piano di quell'appartamento sempre troppo stretto nel centro di Cagliari, i miei genitori avranno molto presto sei figli. Sì, sei: perché ci sono anch'io. Ci sarò anch'io. Tutti i giorni. Anche se nel mio letto adesso dorme Andrea e mamma rimbocca i piedi di Alberto prima di aprire la porta e intonare il buongiorno con la stessa allegria. Fratelli miei, la vita continua: sulle pareti della stanza sono rimaste le bandiere della mia collezione e sul tavolo del computer una lettera che spiega chi ero. Chi sono».
«Sono, ero un arbitro. E il calcio mi è entrato nelle vene il primo giorno che ho indossato la divisa gialla d'ordinanza. Sento ancora quella magica sinfonia che precede una partita. Mi manca il rumore dei tacchetti nell'andito, l'odore di canfora negli spogliatoi, il cuore che accelera con la corsa davanti alle squadre allineate, il cerchio del centrocampo, un fischio, il fischio, verso il cielo. Quei mille piccoli rumori amplificati dalla tensione. E dall'ansia. Quella buona, quella che ti rende umile e consapevole dei tuoi limiti, quella che ti aiuta ad essere un arbitro autorevole e non autoritario. Inutile negarlo: qualche insulto, in campo e dalle tribune, l'ho preso anch'io, ma ho solo ricordi piacevoli. « Riccardo, hai lasciato una grande impronta. E non perché calzavi il 48 », hanno scritto di me. Parole troppo generose di chi allora pensava, e forse pensa ancora, che sarei diventato un numero uno, un arbitro di serie A, il mio sogno. Quel mio piccolo successo personale io però lo vedo in un altro modo, più semplice: anche in un campo di calcio mi sono sempre impegnato al massimo. Come in tutte le mie cose. Mi allenavo due ore al giorno, ero studente di Ingegneria, avevo una famiglia straordinaria e un gruppo di amici fantastici. Uno su tutti: Dio. Sarà per questo che mi sono confessato il giorno prima di morire».
«Sono un ragazzo fortunato, fortunato sin da piccolo. Avevo appena dieci anni quando ho vinto un viaggio premio in America per quattro persone. Avevo comprato una video-cassetta di Walt Disney, compilato e spedito la cartolina di un concorso, tutto da solo, senza chiedere nulla ai miei genitori. E quando ho detto « mamma, prepara le valigie, fra un mese partiamo per Orlando » lei mi ha guardato pensando che fossi diventato pazzo. Da lì è nata la mia passione per i viaggi. L'ultimo in Australia, con mia sorella Stefania e il gruppo dei neocatecumenali per la Giornata mondiale della gioventù. Mettendo Dio al primo posto e chiedendo il suo aiuto si riesce in tutto. Ne sono, ne ero, la prova vivente. Sono un ragazzo fortunato perché ho vissuto 21 anni meravigliosi, senza un dolore, un dispiacere. Una vita piena di Dio e di gioia lasciata in eredità alla mia famiglia, ai miei amici, a chi mi ha voluto, a chi mi vuole bene».
«Sono, ero un ragazzo di altri tempi, un sopravvissuto in un mondo che troppo parla e troppo poco ascolta. Lo dicono ancora di me, ma qualche dubbio mi resta. La morte improvvisa di un giovane è inevitabilmente un amplificatore di doti e qualità. Non sono, non ero niente di speciale anche se puntavo ad esserlo. Magari prendendomi in giro. Spacconate da ragazzo, buone solo per fare autocritica. Anche se avevo la sana abitudine di prepararmi sempre al meglio. Con un tocco di originalità: fascetta verde, occhiali rossi, bandane, avevo un look forse un po' stravagante e una Golf bianca con lo stereo a palla. Anche se la musica non è mai stata una vera passione. Medie all'Alfieri, liceo all'Alberti: a scuola non ho mai avuto problemi. Come all'Università. Il primo posto alle Olimpiadi di matematica, la borsa di studio per merito dopo gli esami di Ingegneria, il premio per il miglior arbitro della mia categoria. Tutto quello che volevo fare riuscivo a farlo: bene? male? non so, lo facevo e basta. Ho fatto anche il porta-pizze a domicilio quando avevo bisogno di soldi. Ma non ho mai chiesto nulla, abituato a camminare, anzi a correre, con le mie gambe. Da morto mi sono rimasti due desideri: girare il mondo e andare a New York. Ci hanno pensato i miei amici: promessa mantenuta con viaggio in mio onore sotto la Statua della Libertà un anno dopo che li ho lasciati».
«Se c'è una cosa che amo sono i video e le fotografie. Se c'è una cosa che odio sono le sigarette. E i tatuaggi, gli orecchini, le veline, il doping. Che poi è la negazione di ogni impresa sportiva. Sono, ero troppo innamorato del calcio per vederne anche i difetti: accetto vizi e virtù di un mondo che non ho fatto in tempo a conoscere bene. La mia è una passione vera: quella che mi ha fatto smettere di giocare a basket e poi lasciare il canottaggio prima di diventare un arbitro. E nella password del mio computer c'è un nome che non si dimentica: Giacinto Facchetti, l'ex capitano dell'Inter e della Nazionale, il mio idolo, morto anche lui il 4 settembre. Un caso? Forse. O, più semplicemente, era la sua ora».
«La mia non poteva arrivare in un momento migliore. Non ero fidanzato, ogni tanto qualche ragazza, niente di serio. Di me avevo un buon concetto senza essere vanitoso. Il giorno più brutto della mia vita? Quando mi sono rotto un piede e ho rinunciato ai campionati nazionali di canottaggio. Quello più bello? Il 4 settembre. Perché ho incontrato Dio, la serie A della vita. Una vita che mi ha dato tutto: le mangiate di pesce, la sveglia all'alba per andare a caccia con nonno, i campeggi a San Teodoro, gli amici. Dentro e fuori dalla chiesa del Poetto. Il resto era palestra, sport, studio. Con una regola fissa: prima la famiglia, poi il calcio. E quando prendevo il microfono per presentarmi durante gli incontri con i neocatecumenali ripetevo sempre il mio credo: mi chiamo Riccardo, vengo da una famiglia che mette Dio al primo posto. Anche quando, sulla pista dell'ex campo Coni, ho sentito le gambe cedere un attimo prima del cuore. L'essere cristiano è una consolazione per chi resta e un attestato di serenità per i miei genitori, per i miei fratelli, per i miei amici. Capaci di ringraziare Dio per i 21 anni che hanno trascorso con me. Senza chiudersi e isolarsi nella disperazione. La vita continua: mamma mi darà un'altra sorellina e in quell'appartamento troppo stretto nel centro di Cagliari, diventeremo finalmente sei».
Due maschi, tre femmine e un arbitro caduto giù dal cielo. Una famiglia unita, raccontata da Enrica e Massimo, i genitori di Riccardo, come se il loro primo figlio fosse ancora lì. Con loro. Perché il dolore conserva perfino il ricordo delle parole.
(salone@unionesarda.it)