Volevano il bomber elettorale, un’ala sinistra per Forza Italia, la maglia numero 11 nella Casa delle Libertà. per conquistarlo, s’è mosso direttamente Silvio Berlusconi: telefonata lunga, mezz’ora. Sarà poi che una telefonata allunga la vita e fa riflettere ma Gigi Riva alla fine ha detto no. Ci ha pensato, s’è tormentato, ha raccolto pareri vicini e lontani, e ha ripetuto no. Però non ce l’ha con la politica e nemmeno con Berlusconi: anzi. Se proprio bisogna spaccare il capello in quattro non ce l’ha neppure col centro sinistra, non si schiera con Pili e nemmeno con Soru. Con chi sta, allora? Coi sardi, dice lui. Soprattutto con quelli «dimenticati da Dio, ignorati dal Governo e dalla Regione». Questo per far sapere che ha fatto una scoperta: la politica. Aggiunge pure un mea culpa: finora, sbagliando clamorosamente, ha letto i giornali andando di filato alle pagine sportive. «Errore, non dovevo farlo». Confida nei tempi di recupero per pareggiare. A dispetto dei sessant’anni quasi compiuti, corre a perdifiato per andare a rete. «Abbiamo il dovere di migliorarci». Detto questo, butta giù pensieri come un acquazzone di idee, attento – anzi attentissimo – a non tradire simpatie, a mostrare il lato umano del campione.

In via Tola a Cagliari, nella sede della scuola calcio che porta il suo nome, si piazza dietro una delle due scrivanie disponibili per quella che dovrebbe essere giusto una precisazione, robetta da cinque minuti: spiegare perché ha rifiutato la candidatura alle Regionali, la realtà diventata qualcosa di più e di diverso, una confessione fiume sulla Sardegna e chi ci abita, sulla Costa Smeralda e chi ci passa, sul voto, sulla sfiga di chi ha sbagliato il paese di nascita, sul futuro. Carica, una dopo l’altra, Muratti sottili che lanciano nubi azzurrognole, negli intervalli stringe sui denti un bocchino terapeutico, desolatamente vuoto: aspettando la prossima sigaretta.

A guardarlo sembra difficile imprigionarlo dentro un santino elettorale, allargare un sorriso e chiedere vota per me. Ha i modi dell’uomo discreto, a tratti perfino imbarazzato visto che per una volta non sta parlando di pallone. Ancora più difficile immaginarlo in quelle cene caciarone dove, tra un bicchiere e l’altro, si brinda a glorie elettorali e alla sistemazione degli amici. Amici degli amici inclusi. Non c’ha la faccia Gigi Riva per meritare una parte così. O almeno così pare a uno che non ha da fargli nessuna domanda sul calcio ma vorrebbe capire: è costruito, vende retorica, fa scena? Si dichiara, parole sue, teso: difatti non smette di fumare. Ma quest’affare della politica che ha snobbato per troppo tempo gli pesa, e vuole portarla fuori, farla conoscere ai sardi che considera – lui, emigrato dal varesotto – suoi conterranei. 

«Sono arrivato qui che avevo diciassette anni. I vostri difetti sono diventati i miei difetti». Assicura che la chiacchierata in teleselezione col Cavaliere non l’ha stupìto. «Però mi ha fatto pensare».

A cosa?

«Al fatto che quella telefonata mi avrebbe fatto finire, per la prima volta in vita mia, in una pagina sbagliata dei giornali. Mi sono chiesto: che c’entro io con la politica?»

Risposta?

«Niente. Ma sbagliavo. Perché la politica decide ogni giorno della mia vita e di quella di tutti noi. A Berlusconi ho detto che la Sardegna deve smetterla di nascondersi dietro il mito della Costa Smeralda. Tanto più che la Costa Smeralda non è neanche roba nostra. È solo nata nel nostro mare».

Ce l’ha col turismo formula extralusso?

«No. Anzi penso che l’arcipelago della Maddalena sia il posto più bello del mondo. È una tesi che ho sostenuto anche con colleghi innamorati di altri luoghi. Maldive, per esempio».

E lei?

«Io non le ho viste, le Maldive. Ma questo mica l’ho detto. Tornando a Berlusconi, gli ho semplicemente fatto presente che noi ci mascheriamo dietro il miracolo del mare e facciamo finta che la Sardegna sia quella fotografata sui depliants azzurri che spediamo in tutto il pianeta ricco».

E lui?

«Lui continuava a dirmi che proprio per queste ragioni ero la persona giusta per entrare in Consiglio regionale».

Vabbé, hanno già trovato la riserva: Massimo Cellino.

«Ho parlato a lungo con lui. Mi ha chiamato e abbiamo scaricato una batteria di cellulare».

Che ne pensa di questa candidatura di panchina.

«Penso che noi sportivi dovremmo giocare in altri campi».

Si tratta di una forzatura?

«Massimo Cellino non è un ingenuo, è un imprenditore: avrà fatto le sue valutazioni. Spero sia convinto, spero abbia trovato buone ragioni per andare in prestito a un mondo che non è il suo».

L’anima di Gigi Riva sogna a destra?

«Né a destra né a sinistra. Nella mia vita ho votato anche partiti piccolissimi. Quando vado alle urne cerco l’uomo che mi ispiri fiducia, non il simbolo».

Mai deluso?

«Sì, purtroppo sì».

Per molti sardi le sue parole sono sentenze di Cassazione.

«Lo so, ne sono felice e non voglio deluderli. Simpatizzo per chi sbaglia, per chi vive in un certo modo».

Quale sarebbe il certo modo?

«Ci siamo mai chiesti cosa abbiamo fatto per i pastori, per la gente che vive nei paesini isolati della Barbagia o dell’Ogliastra? La Politica, quella con la P maiuscola, non li degna manco di un’occhiata. E noi, noi tutti dico, siamo solo capaci di considerarli per aspetti negativi, pronti a giudicarli».

Questo non significa...

«Aspetti, voglio concludere il pensiero. Io dico: non sarà la mia generazione a risolvere i problemi della Sardegna interna e forse nemmeno quella della mia nipotina ma stare inerti è colpevole».

Sta annunciando che farà comunque politica?

«Voglio soltanto ricordare che il rinnovamento deve partire dal cuore della Sardegna. Dovessi fondare un partito mi muoverei tra Oristano, Macomer, Nuoro, Mamoiada, Lanusei... mi spiego? Possibile che nessuno si renda conto?».

Di cosa?

«Che quella è una Sardegna viva, vera, autentica. Una Sardegna che ha solo la sfortuna di stare a cento chilometri dai luoghi dove si fanno le feste con lo champagne. In compenso, non hanno un’ambulanza e devono far la guerra per non perdere l’ufficio postale».

Morale?

«Morale: la gente non vuole che io entri in politica perché la gente non ama la politica. Gliel’ho ripetuto, a Pili e Soru, che vivere in un certo mondo è difficile».

Cosa la spaventa?

«Sento parlare di franchi tiratori, di voto segreto usato come un grimaldello. Quando chiedo spiegazioni, mi rispondono: è la politica, bello. Io non ho bisogno di mettermi in mostra, pensavo di poter essere utile. Tutto qui».

Lusinghiera la proposta di Berlusconi.

«Certamente».

Si è anche sentito usato?

«Ho sessant’anni e una laurea in esperienza di vita. Colgo al volo certe situazioni. No, non credo fosse strumentale».

Secondo lei perché la politica ha bisogno di outsider?

«Serviamo alla sopravvivenza della specie. E portiamo voti. Gli elettori devono cambiare atteggiamento mentale: non devono votare Gigi Riva perché è Gigi Riva ma per quello che fa, anzi che dovrebbe fare».

Serve sensibilità, attenzione.

«E allora bisogna farsi responsabili del ritorno alla politica perché la politica, vorrei gridarlo, siamo noi».

Il popolo degli stadi è massa di manovra?

«Oggi nel calcio si sono infilati molti interessi: sponsor, business, televisioni. Dietro, ci trovi il politico. Che protegge una squadra perché, attraverso i tifosi, può attirare voti».

Le hanno proposto spesso di candidarsi?

«Sì, spesso. Ho sempre rifiutato».

Non le piaceva l’idea di andare in giro in vellutino e scarpe da tennis bianche?

«Non potrei».

E comizi, lo sa che avrebbe dovuto tenere comizi?

«Per carità. Da sei anni non vado in televisione. Lavoro per la Nazionale e sono disponibile soltanto durante la conferenza-stampa del dopo-partita. Non vado da nessuno, nessuno».

Nemmeno da Maurizio Costanzo?

«Mi ha fatto telefonare da una segretaria ma ho declinato l’invito».

Lei è quasi un eroe.

«Non ne ero al corrente».

L’appello di Graziano Mesina invece l’ha raccolto.

«Quello sì. Mi pare fosse a Porto Azzurro, doveva organizzare un campionato tra detenuti e mi chiese magliette rossoblù. Mi ricordo che gli dissi: Graziano, non potevi pensarci prima a metter su una squadra di calcio?».

A parte i talk show, cos’altro non le piace?

«Non mi piacciono quelli che a metà mandato politico cambiano casacca. Non è giusto, sei stato votato per stare al tuo posto».

Non sarà che il mestiere di campione è incompatibile con quello di onorevole?

«Altra cosa che non capisco: onorevole. Senza offesa, ma mi spiegate perché debbo chiamare onorevole uno che ho votato? Onorevole di che?».

È sempre andato a votare?

«Ho avuto la tentazione di astenermi, il dilemma di non sapere a chi dare il voto. Poi, però, ho sempre fatto il mio dovere di elettore. E ancor più lo farei adesso, in questa Sardegna falcidiata dall’euro. I prezzi sono gli stessi di Milano. A non essere gli stessi sono gli stipendi».

Perché si è tenuto lontano dalla politica?

«Perché mi faceva schifo l’idea di chiedere il voto e poi non essere leale, non mantenere le promesse. Mi rendo conto che è un ambiente troppo lontano dal mio. Davanti alla prospettiva di una candidatura, mi sono detto: e credi che sarai tu, ultimo arrivato, a cambiare quella gente?».

Così, i problemi diventano eterni.

«Restano desideri: come una Carlo Felice che sia davvero una strada, le Ferrovie che non abbiamo, il diritto alla salute, i servizi per i più deboli».

Fosse governatore?

«Più che governatore, mago. In giro per la Sardegna ho visto troppe ingiustizie, differenze scandalose. E allora mi piacerebbe far provare ai più fortunati cosa significhi stare dall’altra parte, cosa voglia dire vivere nella solitudine dei pascoli, nei silenzi di tanti paesi. Vorrei provassero a cenare con un pezzo di formaggio e un bicchiere di vino. Per un giorno, un giorno soltanto, mi piacerebbe ribaltare i ruoli».

Pastori e contadini in gita a Porto Cervo?

«Non volevo dire questo. Però sarebbe bello prendere atto di quello che gli altri non hanno. Rispettarli fin dove è possibile. Non parliamo di Costa Smeralda».

Non le piace?

«Non la conosco. Vado a Porto Cervo d’inverno per giocare a golf. Mai vista d’estate».

Porto Rotondo?

«So dov’è ma non ci sono mai stato».

Servono dieci Aga Khan per cambiare la nostra sorte?

«Più che dieci Aga Khan sarebbe meglio avere cinquanta fabbriche in più. Occupazione, lavoro. L’Aga Khan ha fatto molto per una certa immagine della Sardegna ma occorre anche sottolineare un altro aspetto: ha creato un mondo che non è a dimensione di sardo. Quello che ci serve, oggi, è fermare la fuga dei figli con la valigia, la nuova emigrazione. L’Aga Khan, con tutto il rispetto, non è il nostro futuro».

S’è mai accorto dei difettucci locali?

«Sono arrivato qui che avevo diciassette anni, nel ’63. Dicevano: poverino, è finito in Sardegna. Ovvio che col tempo ho acquisito il modo di pensare e di essere dei sardi. A cominciare dalla diffidenza, che tuttavia fa parte della nostra storia. I sardi sono stati sempre maltrattati e quando dicono che dal mare non arriva buona gente, mica sbagliano».

Invidia.

«Invidia e gelosia. È vero, fanno parte di noi ma sono sentimenti che trovi con frequenza nelle città e nei grandi centri piuttosto che nei paesini».

Distacco tra mondo reale e mondo politico.

«Immenso. Sono due pianeti che non si incontrano. La politica non ha séguito o, meglio, non ha il séguito che dovrebbe. Ho affermato che non è amata, per questo mi hanno suggerito di non accettare».

Difatti.

«Chiedo scusa se parlo di calcio ma vorrei dire di un traguardo che la politica non ha mai raggiunto. Sono orgoglioso di quello che ho fatto, che abbiamo fatto, negli anni d’oro del Cagliari, tra il ’68 e il ’72. Oltre che un’affermazione sportiva importante, la nostra è stata una vittoria sociale. Allora della Sardegna si parlava solo come terra di banditi».

Coi calciatori invece?

«Sembrerà banale, ma battendo a San Siro l’Inter o il Milan sapevamo di rendere meno depressi e un po’ più orgogliosi migliaia di emigrati. Abbiamo ricevuto tante lettere anche dall’estero: operai, minatori, commercianti sardi sparsi per l’Europa ci scrivevano per dirci che si sentivano riscattati. Sono felice di aver contribuito a quella stagione».

Che c’entra la politica, scusi?

«Volevo dire che negli anni della storia autonomistica, la politica sarda non ha mai fatto nulla di simile, non ci ha mai fatto sentire riscattati, orgogliosi. Sa cosa rimpiango? Non aver conservato quelle lettere: sarebbero una straordinaria testimonianza».

Sardegna in peggio.

«Anche quella ho conosciuto, certo. Penso a quando ci siamo ubriacati di mare e siamo andati in overdose da cemento, spesso senza una logica, senza un ordine. Non ho la pretesa che l’isola sia identica a quel Paradiso che ho visto quando sono arrivato, nel ’63».

Segnaliamo gli orrori.

«No, per carità. Non voglio aprire polemiche, dividere».

Finalino.

«Un appello: non saltate più le pagine di politica dei giornali. Leggetela, la politica. Occupatevene. Altrimenti continueremo a essere gli ultimi».

Giorgio Pisano

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