Jeans azzurri, piumino blu, mascherina sul volto e borsa nera a tracolla, Beniaminio Zuncheddu lascia il Tribunale di Sorveglianza al quarto piano del Palazzo di giustizia e scende per le scale assieme al suo avvocato. Sono le 10 ed è appena terminata l’udienza durante la quale il pastore di Burcei che sconta l’ergastolo da 31 anni (ne ha 57) ha chiesto la concessione della libertà condizionale, utile dopo 5 anni dal suo ottenimento (per chi ne ha trascorsi almeno 26 in cella) a estinguere la pena. È il terzo tentativo dal 2014. Stavolta il detenuto (dal 2018 gode della semilibertà: la mattina lavora a Cagliari, la sera torna a Uta) e il suo legale Mauro Trogu sperano nel via libera.

Nessuna confessione

I due «no» precedenti sono dovuti essenzialmente a un motivo: il detenuto non ha mai ammesso di essere responsabile della strage di Sinnai, tre morti ammazzati l’8 gennaio 1991 sulle montagne sotto punta Serpeddì. L’ultimo diniego risale al giugno 2020: allora il Tribunale aveva spiegato che senza quel passaggio manca la prova del «sicuro ravvedimento» del condannato, la conclusione di un «percorso interiore di consapevolezza del reato e del suo disvalore sociale». Inoltre Zuncheddu «mai ha espresso solidarietà» ai familiari della vittima né ha «offerto loro» un risarcimento. Ma nel dicembre 2020 la Cassazione ha ritenuto non possibile basare il diniego sulla mancata confessione e rimandato il caso davanti allo stesso Tribunale per una nuova valutazione. Così, ecco il colloquio di ieri davanti al presidente Paolo Cossu e alla giudice Gabriella Muscas.

L’udienza

Zuncheddu ha insistito nel professarsi innocente. «Non ho ucciso nessuno». Ha detto di aver tentato di contattare tramite gli assistenti sociali i familiari delle vittime nel giugno 2020, aggiungendo di aver saputo della loro indisponibilità. Infine ha illustrato i contenuti di quattro incontri negli ultimi tre mesi con un esperto criminologo il quale, nella relazione finale, spiega che: il carcerato sarebbe consapevole della gravità oggettiva di quanto accaduto (il triplice omicidio degli allevatori Gesuino e Giuseppe Fadda e del pastore Ignazio Pusceddu nell’ovile Cuile is Coccus), riconoscerebbe l’importanza del vivere secondo le regole del mondo civile, sarebbe sempre ligio alle regole. In sostanza, avrebbe dato «ampia dimostrazione» di aver compiuto un percorso rieducativo importante e sarebbe «idoneo» a rientrare nella società.

La Cassazione

Resta da capire se tutto ciò sarà ritenuto sufficiente dal Tribunale per concedere la libertà condizionale. Il detenuto e l’avvocato di sicuro puntano molto sulla valutazione della Cassazione, che un anno fa ha spiegato: un condannato «ha il diritto di non ammettere le proprie responsabilità», dunque «non è necessaria la sua confessione», ma deve «attivarsi per prendere parte in modo attivo alla rieducazione»; per il ravvedimento servono «un percorso riabilitativo e rieducativo» che arrivi a compimento senza escludere «il passato, segnato da un delitto dal quale non si può prescindere», una «netta presa di distanza» da comportamenti illeciti e «la piena adesione a modelli di vita socialmente accettati». Il Tribunale nella decisione del 2020 non aveva considerato «alcuni elementi potenzialmente significativi» per capire se il ravvedimento fosse avvenuto. Zuncheddu aveva «dato la disponibilità a intraprendere un percorso di mediazione con le vittime» e, seppure il tentativo fosse fallito per «il loro mancato assenso», si trattava di «atti significativi di concreta apertura e disponibilità». Inoltre «l’équipe della Casa circondariale» nel 2018 aveva sottolineato come il detenuto, pur negando responsabilità, avesse «accettato la condanna»: un elemento da «approfondire» per «valutare» se si trattasse di un «distacco consapevole» dalla precedente «esperienza criminale».

Andrea Manunza

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