«Mio fratello non meritava di subire tanta crudeltà. È un buono, una persona mite e pacifica. E ha sempre lavorato, mattina e sera, al meglio delle sue possibilità: se non andava bene potevano mandarlo via. Invece è stato ridotto in condizioni spaventose. Dopo aver visto le sue ferite ho pianto per due mesi. Nessun essere umano, nessuna bestia merita una cosa così». A parlare è la sorella del servo pastore con una disabilità intellettiva che per un lungo anno, in un’azienda zootecnica a pochi passi dal centro abitato di Villasor, ha subito violenze spaventose, inimmaginabili. Violenze che lo hanno sfigurato: naso tumefatto, orecchie deformate dalle ustioni della fiamma ossidrica, la pelle del viso bruciata, un dito mozzato, il labbro superiore deturpato da un colpo di rastrello.

Qualche mese fa, tornato a vivere in una casa, quella della sorella, anziché nella baracca di una stalla, quest’uomo di 45 anni ha fatto la sua prima passeggiata nel paese dopo tanto tempo: i compaesani, vecchi amici inclusi, non lo hanno riconosciuto. Il viso non è più quello delle vecchie foto, inclusa quella della carta d’identità. Poi, nascoste, ci sono tante altre ferite e bruciature: sulla schiena, una coscia, uno stinco, le parti intime. Tutte documentate in un dossier fotografico depositato in Procura: chi lo ha visto ne parla come di una galleria degli orrori.

Anche l’anima è tutta un livido: traumi che ancora riaffiorano di notte, negli incubi, anche adesso che l’uomo vive in una comunità protetta, lontano dal paese dove è nato e cresciuto ma dove ora, comprensibilmente, ha paura.

La donna che lo scorso ottobre è andata in quella campagna a poche centinaia di metri dal paese e se l’è portato via, a casa, facendolo visitare e medicare e infine, insieme a lui, ha denunciato tutto ai carabinieri si è decisa a parlare con un giornalista perché le preme chiarire una cosa: «Ho letto diversi commenti, sui social e nei siti di informazione, in cui mi si accusa di essermi disinteressata di mio fratello. Non è così: io ci sono sempre stata. Quelle frasi mi feriscono. Sono andata tante volte in quell’azienda a vedere come stesse ma non è stato facile arrivare a scoprire cosa succedeva in quel posto. Invece mi spiace che diverse persone in paese sapevano e potevano avvisarmi, magari senza esporsi, anche con una lettera anonima e non l’hanno fatto».

L’inchiesta e gli arresti

Il colloquio avviene a due condizioni. La prima: niente nomi, anche se tutti a Villasor conoscono le identità sua e di suo fratello. La seconda: nessun dettaglio su tanti aspetti di un’indagine tutt’altro che conclusa, aspetti ancora in corso di valutazione e passibili di sviluppi.

Nell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia per riduzione in schiavitù, plagio e lesioni permanenti aggravate con deformazione dell’aspetto, gli arresti del titolare dell’azienda agricola di Bruncu Su Laccu, Giuseppe Dessì, 44 anni, e della compagna, Valentina Littera, 35, sono una tappa significativa ma intermedia. Littera è ai domiciliari: li sconta nell’abitazione accanto all’azienda, poco fuori dal paese, dove gli investigatori collocano le sevizie. Dessì, invece è in ospedale, piantonato dalla polizia penitenziaria: il ricovero si sarebbe reso necessario per l’emergere di “problemi di salute pregressi” ma anche perché sabato scorso l’allevatore si sarebbe fatto male tentando di sfuggire ai carabinieri. Per eseguire l’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla gip Ermengarda Ferrarese su richiesta del pm Emanuele Secci, oltre ai militari della Stazione locale sono entrati in azione quelli di Serramanna e del Nucleo operativo radiomobile di Sanluri e ben due squadre operative dei Cacciatori di Sardegna: uno spiegamento di forze che dà il senso dell’importanza e della pericolosità attribuite all’operazione. Fino all’altro giorno, l’allevatore era sottoposto al regime della messa alla prova: una misura alternativa al carcere. Sconta una condanna per coltivazione di canapa indiana.

Colloqui sorvegliati

«Mio fratello – riprende la donna – lavorava per lui da sette anni». Inizialmente nulla di anomalo: «Non mi sono messa in mezzo perché si erano accordati fra loro: nonostante la sua disabilità intellettiva (non “problemi psichici”) mio fratello si è sempre gestito in piena autonomia. Non era il primo impiego: è uno che ha sempre lavorato, mattina e sera».

Col passare del tempo, le prime stranezze: «Non faceva più le sue solite passeggiate in paese. E non chiamava. Provavo io a chiamarlo ma il suo telefono non era raggiungibile. Ho chiesto in paese: nemmeno i vecchi amici, con cui ogni tanto andava a mangiare una pizza, lo avevano più sentito né visto».

È a quel punto che la donna ha cominciato ad andare a Bruncu Su Laccu: «Varie volte mi è stato detto che non era in azienda, che era da qualche parte con il bestiame. A forza di insistere, sono riuscita a vederlo. Mai da solo: ai colloqui era sempre presente anche il principale». Era lui a rispondere alle domande: «Il cellulare? Mio fratello “non si sapeva tenere le cose”, l’aveva perso. Il naso gonfio? Era caduto. Un’altra volta, tempo dopo, aveva di nuovo il naso gonfio e non aveva gli occhiali, che porta da sempre: “persi” anche quelli».

Le altre ferite, le orecchie deformate dalla fiamma ossidrica? «In quelle occasioni non le ho potute vedere: era sempre vestito. Gli chiedevo se stava bene e lui, in presenza del principale, rispondeva timidamente di sì. Gli ho chiesto di venire a vivere a casa mia: è intervenuto il principale, dicendo che mio fratello era adulto e toccava a lui decidere dove stare».

Un lungo percorso

L’incantesimo si è spezzato lo scorso ottobre, dopo una telefonata che ha definitivamente aperto gli occhi alla donna su quanto accadeva a Bruncu Su Laccu: ci è tornata e, non senza fatica, è riuscita a farsi consegnare il fratello. «Ho detto che era in condizioni tali per cui non era nemmeno più in grado di lavorare e me lo sono portato via». Tappa a casa e, dopo averlo spogliato per un buon bagno e aver visto in che condizioni era, dritti in ospedale, prima al Brotzu poi al Policlinico di Monserrato: «Perché trovasse il coraggio di iniziare a raccontare, anche senza fare nomi, ci sono voluti giorni». Poi, per mesi, da una struttura sanitaria all’altra per valutare e curare le ferite. Infine, la struttura protetta, fuori da Villasor. «Ora, fisicamente, sta meglio. Psicologicamente c’è un lungo percorso da fare. Vi prego, voi giornalisti: non dimenticatevi di questa inchiesta».

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