Riapre alle visite al pubblico il carcere di Castiadas con il suo museo. I lavori per la messa in sicurezza della struttura sono stati ultimati e dalla prossima settimana le porte dell'antico carcere (realizzato a fine Ottocento, ha ospitato nel tempo migliaia di carcerati), ospiterà nuovamente turisti e villeggianti che avranno modo di visitare le celle, le camere di punizione e altri siti storico di questo carcere-monumento.

Per favorire le visite il comune di Castiadas assumerà cinque guide. Sempre a Castiadas è stata ristrutturata la sede dell'Infopoint, un fabbricato che faceva parte del carcere. Il comune ha recuperato la casa del direttore, le scuderie, un'intera ala dell'antica colonia penale. Tutte strutture di straordinario valore.

A poche centinaia di metri, nell'area che sino a mezzo secolo fa ospitava le mandrie degli allevatori-carcerati, è stato realizzato un teatro all'aperto. Visitando il carcere è davvero facile fare un tuffo nel passato.

Un pezzo di storia che ha segnato Castiadas e il Sarrabus. Era il 1875 quando trenta forzati e sette guardie carcerarie, lasciata la casa penale di San Bartolomeo a Cagliari, sbarcarono sulla spiaggia di Sinzias tra Villasimius e Castiadas. Il gruppo era guidato da Eugenio Cicognani: su mandato del ministero dell'Interno, l'ispettore aveva il compito di porre la prima pietra della nuova colonia penale agricola.

La scelta cadde su un'area fra i torrenti di Gutturu Frascu e Bacu sa figu. E qui, i forzati e le guardie fissarono la loro prima dimora costruendo una capanna di legno. Qui nacque poi la più grande delle colonie penali agricole d'Italia. Una struttura superba che sino al 1955 ospitò migliaia di condannati: intorno, migliaia di ettari di terreno, coltivati dagli stessi forzati.

Ma era anche un luogo di dolore, di isolamento e di disperazione. Ai trenta originari sbarcati nella baia di Cala Sinzias, nel tempo se ne aggiunsero centinaia: secondo il Corriere di Sardegna, nel 1876, a Castiadas c'erano già 300 detenuti con le prime strutture murarie capaci di accoglierne addirittura 500.

Per la costruzione furono utilizzati graniti e calcare di Castiadas. Oltre alle prigioni, a fine 1876 funzionavano già la falegnameria, le officine di fabbri e di carpentieri e persino una infermeria. Sorsero anche le strade ed una decina di distaccamenti. Con gruppi di lavoro che addirittura dimoravano in case di legno montate su ruote: in ogni casa, dieci forzati. Tutti in giubba rossa.

Una vita durissima, dicono le cronache, ma anche produttiva. Sorsero i poderi. Quello di Masone Pardu ospitò cento prigionieri: operavano su 250 ettari producendo legumi e cereali, frumento, avena ed erba medica nel podere Manno. A San Pietro 40 forzati coltivavano gelsi, ulivi, aranci, mandorli e limoni. A Minniminni erano attive quattro stazioni carbonaie. I poderi di Genna Spina, Bovile e Ortodeso erano stati invece destinati all'allevamento dei bovini, ovini e suini. Le notizie erano comparse anche sulla Gazzetta agricola.

Una lunga opera di bonifica e di trasformazione fondiaria. Con la malaria che in questo frangente fece anche delle vittime, assieme alla tubercolosi. A guadagnare di più erano gli innestatori ( 0,55 lire giornaliere nel 1900), le paghe più basse agli spargitori di concimi che al giorno guadagnavano 0,32 lire.

Durissime le punizioni per gli indisciplinati. Fra queste, la cella oscura con pane e acqua. E la cella di isolamento per sei mesi: non mancarono i suicidi per disperazione. Ci furono anche forti polemiche sui giornali dell'epoca.
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