Il lavoro “sporco” in Sardegna, spacciato per sperimentale, i guadagni nel lontano Nord America e in Europa. Portovesme, profondo Sulcis, ancora una volta, cloaca mondiale per rifiuti pericolosi spediti nell’Isola dalle più recondite periferie industriali del mondo. Il tritarifiuti e il brucia-veleni destinati all’area industriale più devastata del Sud Sardegna, con un lasciapassare, da sempre, legato al dramma del lavoro che non c’è.

Il ricatto

Il ricatto lavoro-ambiente, qui, in questa landa desolatamente inquinata, in terra, sottoterra, mare e aria, è sempre stato un sistema: multinazionali di Stato e straniere non ci hanno mai pensato due volte a far risuonare il “de profundis” della dignità in cambio di inquinamento e buste paga. Tutto questo sino a quando non hanno cominciato a spedire lavoratori in cassa integrazione sino a licenziarli, per lasciare impunemente sul campo solo devastazione ambientale, malattie e una popolazione sotto attacco sanitario.

Il copione

Il copione è sempre lo stesso, questa volta, però, il nome del piano è tutto un programma: “Black Mass”. Lo abbiamo rivelato con un’inchiesta nel maggio scorso quando i progetti della multinazionale svizzera, la Glencore, proprietaria dello stabilimento “Portovesme srl.”, erano ancora segregati negli uffici di Baar, quartier generale della società nel cuore della Svizzera più centrale. Scenario da mille e una domanda, con una che prevaleva su tutte: per quale motivo quelle pericolose scorie di batterie al litio, e non solo, accumulate alle periferie del mondo, devono essere spedite nel Sulcis?

Nessuno li vuole

In realtà, nel mondo, tantomeno in Europa, nessuno voleva, e vuole, farsi carico di un oscuro impianto sperimentale per trattare quella “misteriosa” “massa nera”, carica di veleni, molti dei quali “ignoti”, lasciati al caso. Dal piano svizzero svelato dall’Unione Sarda a fine maggio alla procedura amministrativa il passo è stato breve: il sei giugno scorso il protocollo della Regione Sardegna registra la richiesta della multinazionale Glencore di «Procedura di Verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale” per il “Nuovo impianto dimostrativo per la produzione di carbonato di litio e ossidi di metalli misti dal trattamento della Black Mass (Li-Demo Plant)». Il tutto, secondo gli uomini d’affari del colosso metallurgico, doveva consumarsi nei sobborghi della burocrazia, senza troppo clamore, giusto per tenere spenti i riflettori su ambiente e salute.

Niente “chetichella”

La procedura richiesta in effetti è quella che nei palazzi hanno etichettato con la sintesi più efficace: approvazione alla “chetichella”. In pratica l’obiettivo della “Portovesme srl.” era quello di evitare in ogni modo la Valutazione di Impatto Ambientale, ritenuta dai "potenti” un inutile orpello di burocrazia, un limite alle scorribande ambientali in terra di Sardegna, una perdita di tempo rispetto al totalizzatore di dollari che avrebbero voluto far girare senza indugi. Un piano da imporre a quello che considerano un “terzo mondo” industriale dove tutto è permesso e niente è vietato. Gli è andata male.

Occhi aperti

Gli uffici del Servizio Valutazione impatto ambientale dell’Assessorato regionale dell’Ambiente non hanno chiuso gli occhi. Davanti a quel progetto tanto superficiale quanto pieno di misteriose incognite sul processo industriale non c’è stata alternativa. La procedura per la verifica di assoggettabilità alla valutazione ambientale ha dato un esito senza appello: niente scorciatoie, si deve procedere ad una valutazione di impatto ambientale senza sconti e sotterfugi. La via “leggera” richiesta dalla Glencore è bocciata. Nel dispositivo con il quale l’assessore regionale dell’Ambiente Marco Porcu ha proposto la delibera alla giunta regionale, approvata a fine settembre, emergono, però, nuovi e più inquietanti elementi su un progetto dai mille lati oscuri, a partire proprio dall’impatto ambientale.

Processo “nero”

Sono i numeri del processo “idrometallurgico” a far drizzare le antenne ai tecnici: per ogni tonnellata di Black Mass sono previsti reagenti sufficienti a far impallidire persino un chimico neofita. La declinazione è scandita da quantitativi ciclopici: per ogni 1000 chilogrammi di “massa nera” da trattare è previsto un utilizzo di 880 chilogrammi di acido solforico, 75 kg di acqua ossigenata, 730 kg di carbonato di sodio, 810 di soda caustica, 4.580 litri d’acqua demineralizzata. Se si considera che dal resto del mondo gli svizzeri prevedevano di far arrivare via nave a Portovesme la bellezza di 11.318 tonnellate di “Black Mass” all’anno i calcoli sono presto fatti: una vera e propria discarica mondiale di massa nera e rifiuti pericolosi, non tanto per dire, ma perché codificati come tali dalle leggi vigenti.

L’Isola dei rifiuti

Il risultato di questa “produzione” è un epitaffio per il buon senso: tutta la produzione di carbonato di litio, 1.612 tonnellate all’anno, sarà inviato presso impianti di trattamento finale del litio situati in Nord America, Europa e Nord Africa, i metalli misti 15.339 tonnellate annue verso gli impianti di stoccaggio del gruppo Glencore operativi in Norvegia e Canada. Resta lo scarto della grafite, quella che non serve a nessuno. La Glencore, guarda caso, sa come riciclarla: la brucerà come reagente, senza colpo ferire, nei forni Waelz, in sostituzione dell'antracite e del coke dell’impianto di Portovesme.

Le scorie finali restano

La grafite non sarà l’unico scarto a restare in terra sarda, da smaltire in terra e mare sardo ci saranno anche le acque reflue filtrazione del carbonato di litio in uscita dall'impianto, come detto 4.870 litri ogni tonnellata di “Black Mass” trattata nell’impianto. Stiamo parlando di 55 milioni di litri d’acqua da trattare. Ovviamente la Glencore propone la sua soluzione: utilizzare quell’acqua “al litio” come fluido ausiliario in altre sezioni dello stabilimento di Portovesme, in sostituzione dell'acqua industriale. Dove finirà alla fine quest’acqua? Una parte dei quasi 5.000 litri d’acqua di processo sarà assorbita dalle scorie Waelz, 2.890 litri, e il resto 1.240 litri sarà inviato all'impianto di trattamento delle acque di Stabilimento per poi essere trattate nell'impianto di depurazione, prima di essere scaricate a mare.

Mare e sottoterra

Non ci sono molti sotterfugi: alla fine dei conti una parte, seppur trattata, finirà in mare e un’altra sottoterra, nella discarica iglesiente di Genna ‘e Luas.Nella delibera regionale che nega la scorciatoia autorizzativa è netta la posizione del Comune di Portoscuso: «Non si ritiene accettabile che venga preso in considerazione l'effetto di diluizione e miscelazione con altri reflui provenienti peraltro da altri processi produttivi di soggetti terzi». Un’ipotesi, quella di usare gli impianti industriali collaterali per “smaltire” l’acqua di processo del Litio, che riapre un capitolo oscuro: per quale motivo la Glencore ha messo in cassa integrazione i lavoratori degli impianti di Portovesme? Il tema era quello del costo energetico o peggio una condizione occupazionale per farsi approvare l’impianto-discarica del Litio? Nessuno si fida più della multinazionale svizzera: troppe bonifiche non fatte e troppi lavoratori messi sotto scacco. Un progetto da approvare alla “chetichella” era improponibile. Il Ministero dell’Ambiente non ha lasciato margini di manovra: «la presenza, nelle emissioni liquide o gassose, di litio e di altri metalli o sostanze chimiche in concentrazioni apprezzabili e variabili in funzione della composizione fisico-chimica della stessa», impone una vera e propria valutazione di impatto ambientale. Con l’ambiente e la salute non è più tempo di sotterfugi.

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