Chi comanda in Sardegna? Le donne. La nostra, sia benedetto il cielo, è una società matriarcale. Questo ci ha salvato dall'oblìo e dal consumo, ci ha scaldato l'anima nell'inverno del non-senso con uno scialle ricamato di rose, la danza di una fiamma che emerge come un'isola dal mare dell'infanzia.

Maria Antonietta Mongiu, forgiata a Pattada, è una donna con lo scialle e la spada. Mi hanno detto: "La professoressa Mongiu dà del tu ai Giganti di Mont'e Prama". Io, che vengo dal paese degli scalzi, mi sono messo in cammino. Eccola, è un fiume in piena. E tu sei abbracciato a un tronco di quercia mentre la corrente del Tirso ti porta via. Ti parla di Antonio Gramsci e Carl Gustav Jung, di potere e ascolto (è stata assessore alla Cultura nella Giunta Soru), di presente e antichità (la sua nomina nel cda del Museo archeologico di Cagliari è di poche settimane fa), tesse la sua tela in lampi, è un'archeologa ma il suo scavo è inesorabilmente sopra la tua testa, tra i Giganti.

Maria Antonietta Mongiu (L'Unione Sarda)
Maria Antonietta Mongiu (L'Unione Sarda)
Maria Antonietta Mongiu (L'Unione Sarda)

Professoressa Mongiu, si è scatenata una guerra su due livelli. Il primo è quello che riguarda i Giganti e il territorio, il diritto della comunità di Cabras di poter vivere con il suo passato-presente. L'altro livello riguarda la guerra di competenze, di carte bollate, che si è scatenata tra il Comune e la Sovrintendenza. Partiamo dal primo livello, Cabras e i Giganti.

«Partiamo dagli anni Settanta, quando l'archeologo Alessandro Bedini nel 1975 fece il primo scavo, è allora che si oltrepassa una dimensione esistenziale regressiva e marginale - e molto si deve al professor Giovanni Lilliu - è in quel tempo che ho visto entrare i frammenti di una nuova storia. C'era già polemica allora, in un articolo del 1976 Lilliu si lamentava con Ferruccio Barreca - ed era noto che spesso i due non fossero d'accordo non solo sul piano scientifico. Tutta la storia dell'archeologia sarda si svolge in uno sfondo di conflitto, in particolare per il Sinis».

Qual è il mistero dei Giganti?

«Sono un elemento "scandaloso", collocano la Sardegna improvvisamente in una dimensione Mediterranea».

È il paradosso di non essere più un'isola.

«Non solo. I Giganti tolgono la Sardegna, Cabras, e tutto il resto da una dimensione cantonale, folcloristica, preistorica, ci mettono di fronte all'urbano, alla città. E nel vedere tutto questo ti viene la vertigine, finisci in terapia dallo psicanalista per sopportare tutto questo».

Quello che lei ha riassunto in una parola che brucia, "scandalo", chiude e apre l'era nuragica?

«Esatto. Improvvisamente, il paesaggio nuragico cambia. Entriamo in una forma di autocoscienza della nostra storia, usciamo dalla dimensione coloniale. Vediamo la Sardegna senza pregiudizio cantonale, scopriamo e vediamo "l'orientalizzante" che compare in Occidente e compare precocemente qui, e ne sono protagoniste le popolazioni indigene. I termini che si sono usati fino agli anni Settanta risentono in maniera drammatica dell'auto-stigma che avevamo maturato su di noi».

Quale sarebbe lo stigma?

«Quello del popolo sconfitto. Ma non è così. La storia si affronta come un continuum, come ci ha insegnato Gramsci, che forse oggi è il pensatore più studiato al mondo - e sottolineo che è nostro. Gramsci è il mio vicino di casa, vedo tutte le mattine la sua pensione e ogni mi volta ricordo a me stessa: vedo il suo stesso paesaggio!»

Lei ha avuto un'esperienza politica intensa e là ha incrociato i Giganti.

«Quando sono diventata assessore nella Giunta Soru, trovo un accordo di programma quadro, inventato, voluto, cercato, da Francesco Nicosia. Soru nel 2004 vince le elezioni, inizia così una saga "nurago-centrica". Io arrivo nel luglio 2007, inizio a lavorare e in due mesi faccio la delibera, giro quasi 4 milioni di euro al centro di restauro di Sassari, facendolo diventare una cosa seria, con soldi veri. E così comincia l'avventura delle "disiecta membra", di questi frammenti che di colpo prendono la luce e diventano il complesso scultoreo dei Giganti. Le statue erano esposte tutte insieme e dico che proprio tutte insieme hanno senso, sono l'emozione, la sindrome di Stendhal».

Una rivoluzione.

«Sì, un cambiamento di paradigma».

La popolazione di Cabras si chiede: ma perché ci devono portare via le statue per il restauro?

«Lei è di Cabras, io sono di Pattada, ci capiamo. Le nostre comunità, in questo momento, sono disgreganti e disgregate, rispetto a quelle del passato. Siamo di fronte al declino e si pensa: lo fermo con l'esaltazione di questa cosa. Allora io dico: lasciate le statue a Cabras, ma quel museo e Tharros, il Sinis, non possono rimanere in quelle condizioni. Serve un progetto, un patto di comunità vero, positivo. A Cabras serve un restauratore fisso, un microclima per la conservazione, solo così diventerà uno dei luoghi di stratificazione culturale più importanti del mondo. Bisogna avere il coraggio di dirle, le cose. Se è così, allora tutta quella comunità, compatta, fa un'azione positiva».

Archeologia, burocrazia, politica, immaginario. Quante cose bisogna tenere insieme. A me pare che domini ancora il folclore e il "sagrificio" regionale. Come si fa a uscirne?

«Dobbiamo uscire dalla dimensione preistorica di questa straordinaria invenzione architettonica, il suo confronto dal punto di vista tecnologico è con le piramidi, parlo da classicista. È un atto di fondazione straordinario, dobbiamo uscire dal racconto del popolo sconfitto, entriamo nella dimensione urbana, di civitas, di città. Grazie ai miei maestri, ho avuto la fortuna di uscire dalle letture "cocciarole", di entrare in mondi più vasti, anche entrando nell'analisi psicanalitica del perché c'è l'ossessione dello scavo, della scoperta. A Cabras ora dicono, "questa roba ce la devono riconoscere". Ma basta leggere il Codice Urbani, è tutto già scritto e riconosciuto: il Comune, il sindaco, pianifica, e il sovrintendente non è più il monarchetto, deve condividere le scelte».

Riepilogo: la posizione del Comune di Cabras è giustificata dal Codice Urbani, ma tutta la comunità deve pensare non a quello che ha, ma a ciò che deve fare. Dico bene? E proseguendo, la Sovrintendenza non può comportarsi come se fosse una monarchia assoluta.

«Proprio così, dal Codice Urbani in poi la Sovrintendenza deve condividere i percorsi con le comunità. Perché non tutela solo il paesaggio, ma tutela la percezione che hanno le comunità di un luogo».

Tutela? Ho letto cosa ha scritto la Sovrintendenza al Comune di Cabras e sono rimasto interdetto.

(Silenzio, un preludio). «Io faccio fioretti di non-commento».

Conto di averne uno tra qualche riga. Da Gramsci alla domanda del compagno Lenin: che fare?

«In questo momento va spersonalizzato tutto, bisogna tornare proprio al pensiero di Gramsci (che non era marxista ma comunitario, sardo) e chiedere al ministro Dario Franceschini di mandare uno studioso dell'Istituto centrale del restauro per fare una verifica di tutto il complesso di Mont'e Prama, fare un "regesto" di tutto il materiale, promuovere un'operazione di restauro pubblico».

Obiezione vostro onore, Li Punti non è Cabras.

«Il restauro si fa a Cabras, in collaborazione con Li Punti, con tutto il personale e la tecnologia che hanno. Si può fare».

E non è un problema di soldi.

«Assolutamente no. Chiamano i restauratori di Li Punti, l'impresa che ha vinto il bando, tutto si fa a Cabras. Attrezzano un luogo adatto, con la supervisione dell'Istituto centrale del restauro. E abbiamo chiuso il cerchio. Le sembra difficile?»

Per niente.

«Sono certa che il ministro Franceschini sarà d'accordo. Bisogna leggere ogni tanto la Carta de Logu, io la so leggere, con il suo accento. E deve leggerla anche lei».

Obbedisco, ma non garantisco sull'accento. Perché è importante la Carta de Logu?

«Perché c'è scritto che per comporre i dissidi arrivano i saggi delle comunità, la figura dell'intellettuale di Gramsci che poi guida, l'élite che non è parte in causa, ma indirizza e risolve».

Conseguenza: bisogna fare subito la Fondazione di Mont'e Prama.

«Immediatamente. E dobbiamo uscire dal localismo».

Avere una visione internazionale.

«Non c'è altra via, i Giganti sono di Cabras, ma interessano tutto il mondo. Altrimenti facciamo la fine dei poveri dei paesi africani che sono seduti sui diamanti e restano poveri mentre pochi si arricchiscono. Si riconosce in questa parabola?»

Purtroppo sì. E me ne sono dovuto andare.

«Io sono rimasta. E Fausto Zevi mi disse: non te ne vai? Allora devi essere molto brava a mediare con tutto questo. Perché i sardi in realtà non sono invidiosi, ma praticano una cosa che si chiama "disconoscimento", per cui non sei nessuno e "no balis nudda". C'è una cosa nel "Giorno del giudizio" di Salvatore Satta, il fatto che chi va via è condannato a non tornare. Io lo trovo terribile, questa è Itaca vera. Molti di noi che hanno resistito e sono rimasti e molti di voi che vanno e vengono, non avendo disperso nulla di questa intensità sarda, devono dare una mano a fare questo salto. Dunque subito la Fondazione Mont'e Prama, l'accordo tra le istituzioni, l'ampliamento del Museo e fine della trasmissione. Diventerà uno dei punti d'attrazione del mondo, perché la gente riprenderà a viaggiare».

Intanto la Sovrintendenza il 26 febbraio arriva a Cabras per portare via le statue.

«Suggerisco alla sovrintendente Picciau di fermarsi. Cerchi un accordo tra le istituzioni. E il Comune faccia un'azione positiva. Bisogna mettere insieme questi attori: l'Istituto centrale del restauro, la Sovrintendenza, il Comune e il centro di Li Punti».

Il professor Raimondo Zucca ha proposto un grande museo del Sinis (usando il progetto del betile di Zaha Hadid) e il posizionamento delle copie dei Giganti sulla collina di Mont'e Prama. Un sogno.

«Il betile è per Cagliari e si farà a Cagliari. Quella che propone "Momo" è senza dubbio una suggestione, ma il progetto del nuovo museo di Cabras deve comunque andare avanti. Il Sinis, questo è il punto, ha bisogno di un grande restauro paesaggistico. Ho conosciuto Gilles Clément, il più grande paesaggista del mondo, abbiamo bisogno di competenze raffinatissime che in questo momento non abbiamo, devono venire da tutto il mondo».

Cosa sono per lei i Giganti?

«Ho visto in Lilliu e Bedini l'idea che stava succedendo qualcosa, la svolta degli anni Settanta. E poi, da assessore, sono riuscita a trasformare questi frammenti - con l'aiuto di tante persone, un'intelligenza collettiva, da soli non si fa niente - in un complesso scultoreo tra i più importanti della storia del Mediterraneo. Non ci possiamo disperdere in polemichette, siamo di fronte a una cosa grandiosa. Dobbiamo percorrere una strada che non è l'assalto ai forni e l'incendio del campanile, bisogna mettersi al tavolo e parlare. Ce la faremo, ne sono convinta».

Mario Sechi

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