Circondate, senza via di scampo. Inerpicate lassù, laddove le strade non arrivano e il nido dell’aquila è ancora lontano. La vetta prescelta traguarda il Campidano a valle e la Barbagia a monte. Lo scenario è spettrale. Inutile affidarsi al tracciato stradale, un tempo lingua di terra polverosa al cospetto di un proscenio verde variegato. Ora è tutto drammaticamente nero. Il riverbero della cenere, cosparso in ogni dove, ha annientato ogni codice identificativo di questo enclave nel Ducato di Mandas, un tempo feudo sconfinato, dalla curatoria di Siurgus alla Barbagia di Seulo, da quella di Ollolai sino al marchesato di Terranova. Prima ti addentravi in una selva di lentischi, ulivi e querce, ora il viaggio è tra il carbone ancora ardente di quelle chiome trasformatesi in torce infuocate e l’aria ancora impregnata di fumo pesante, come un macigno. Lo stesso fumo che le ha tradite per sempre.

Tsunami di fuoco

Quando all’orizzonte scorgi quel groviglio di ferro e lamiere adagiato sulla cima del monte, come se fosse passato uno tsunami di fuoco, ti rendi conto che qui la vita si è fermata come a Pompei. Prima c’ha pensato il fumo a renderle inermi, così come tante volte gli era capitato per il prelievo di quel nettare intarsiato in un ricamo di cera. Questa volta, però, a stordirle non è stato un affumicatore artificiale funzionale solo a tranquillizzarle per pochi attimi necessari alle manovre colturali del prelievo della più naturale delle dolcezze.

Tradite nel Ducato

A tradire le sante api del Ducato di Mandas è stato un tornado prima di fumo intenso e poi fiamme violente. Non hanno avuto nemmeno il tempo di rendersi conto di quel che accadeva. Sopraffatte da un olfatto che le ha messe subito in modalità autoprotezione, incitandole ad accumulare nel proprio organismo energie, miele e cera, per fronteggiare possibili migrazioni in caso di fiamme. E’ stato quel rilassamento da fumo a incastrarle per sempre dentro quei telai fitti e densi all’interno di quelle arnie-famiglia che campeggiavano sui colli di Mandas verso Nurri. Il miele suntuoso, arso prima dal caldo e poi dalle fiamme, le ha prima avvolte e poi mummificate, incastonandole tra la loro linfa primordiale e la carbonizzazione di tutto quello che le circondava. Quello sulle cime del Ducato è l’ultimo atto di una guerra che le api di Sardegna hanno subito inermi in un mese da apocalisse, dalle pendici di Bonarcado alle cime di San Leonardo, dai promontori di Badde Urbara nelle montagne di Santu Lussurgiu sino alle colline di Cuglieri. Quelle casseforti di miele pregiato, incastonate nei luoghi più impervi della natura sarda, sono diventate in un attimo i feretri di una delle più antiche produzioni del Creato. Sandro Pisano, apicoltore professionista di Nurri, i suoi alveari sulle vette di Mandas li ha visti prender fuoco dalla finestra di casa, dall’altra parte della montagna. Quando è arrivato, attraversando lingue di fuoco e fumo, è riuscito solo a spezzare un tassello di quel domino che una dopo l’altra stava sciogliendo le sue famiglie di miele. Delle 50 postazioni ne ha salvato a malapena quattro. Solo in quell’eremo sono rimaste carbonizzate quasi tre milioni di api. L’impatto è devastante, cenere e carbone avvolgono quel che resta di questa fabbrica a cielo aperto, capace non solo di produrre miele ma di garantire fecondazione e riproduzione, impollinazione e natura senza artifizi. Del resto l’inesplorato universo delle api è da sempre in Sardegna il più silenzioso e prolifico motore della natura, capace di utilizzare quell’insetto regale in un propulsore di fondamentale importanza per l’impollinazione delle colture alimentari e non solo. Basti solo un dato: le api forniscono il 76% dell'impollinazione delle colture agricole. Una vera e propria catena di montaggio dove l’insetto a strisce nere e gialle è il ponte passerella aereo per la “fecondazione” della natura. Quello che si è consumato in Sardegna sul fronte del fuoco, dal Montiferru a Fonni, dal Barigadu al Gerrei, non è un incendio. E’ una catastrofe, ambientale, naturalistica, economica e sociale. E i numeri sul fronte sono senza precedenti. In meno di dieci giorni sono state sterminate non meno di sessanta milioni di api. Un’ecatombe. Non meno di mille arnie, ognuna con almeno 60.000 api. Tra le sei-settecento arnie sono di professionisti del miele, di coloro che dall’universo delle api hanno costruito una vera e propria industria del nettare primordiale. Una sorgente di vita fondamentale per irrorare polline indispensabile per la biodiversità e l'agricoltura dell'Isola. I ventiduemila ettari rasi al suolo da fiamme alte anche venti metri ora sono alla mercé di dilavamenti ed erosioni, di tracolli ambientali che mettono a repentaglio la tenuta dei terreni. L’antico adagio secondo il quale per fare un fiore e un frutto ci vuole un’ape nel Montiferru è stato divelto anche qui, come a Mandas, dall’incedere violento di quelle fiamme scientifiche che non hanno lasciato scampo alle “operaie del miele” e alle Regine dell’alveare. In quell’eremo tra San Leonardo e Santu Lussurgiu si è consumato un sacrilegio di una delle aree più boscate dell’Isola, meta esclusiva per quel “nomadismo” delle api e degli apicoltori alla conquista dei lembi più intonsi della terra di Sardegna, alla ricerca di Asfodelo e Lavanda selvatica, Erica e Corbezzolo.

I signori delle api

I signori delle api lo sanno bene. Il lavoro incessante, dentro e fuori quelle case di cera, è silenzioso e fondamentale, non solo per i barili di miele che ogni anno riescono a produrre, ma anche, e soprattutto, per la funzione strategica di quegli alveari tra le montagne. Ne sa qualcosa Francesco Caboni, figlio di una delle più antiche famiglie del miele, nato e cresciuto tra gli alveari di San Sperate e le arnie dei nonni sistemate nei pertugi montani più remoti della Sardegna. Lui, a capo di una delle più importanti società consortili in Italia, ha messo in piedi un’organizzazione che raduna undici dei più grandi produttori di miele dell’Isola. Terrantiga è il nome della società. Una squadra di professionisti, settemila alveari in tutto, soprattutto nelle oasi dei fiori più esclusivi della macchia sarda. Un colpo, quello subito nel Montiferru, che ha segnato in modo indelebile il mondo unico ed esclusivo delle api in Sardegna: «In questa terra, in queste foreste, c’era un polmone unico e inesauribile non solo per le nostre api. Ora è tutto distrutto – racconta Francesco Caboni, presidente dell’Organizzazione di produttori Terrantiga Apicoltori Sardi. Il Montiferru era in grado di esprimere una straordinaria biodiversità, unica nel suo genere. Tutto questo è stato raso al suolo. Un danno che non si limita al contingente. Non solo centinaia di arnie, ma qui è stato ridotto in cenere un patrimonio naturalistico e ambientale che da solo costituiva un vero e proprio pilastro per il sistema agricolo e produttivo».

Il sibilo si è fermato

La devastazione è segnata dalle immagini, da quelle fiamme che hanno camminato incessantemente come lame rotanti di fuoco, capaci di seminare distruzione in lungo e in largo, senza lasciare scampo. «Solo per i soci della nostra organizzazione di produttori stimiamo una perdita di non meno di 600/700 alveari, per 50 mila api ciascuno. A questi si devono aggiungere altre 3/400 arnie di piccoli apicultori». Il sibilo delle api ora si è fermato. Una mano criminale le ha maledettamente tradite.

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