Aveva fatto carriera, anche molto in fretta, lontano dalla sua terra. Ma quella di Nicolino Selis, siniscolese, classe 1952, non è la storia di un "cervello in fuga", nonostante l'intelligenza non gli mancasse. No, lui operava in un ambito diverso: era un criminale di grande spessore. Tanto da riuscire a entrare nelle grazie di Raffaele Cutolo, conosciuto durante uno dei tanti soggiorni nelle patrie galere a metà degli anni Settanta del secolo scorso. E dall'allora potentissimo boss della Nco (nuova camorra organizzata) aveva appreso tecniche e strategie per trasformare in qualcosa di simile a Napoli, sia pure in una realtà diversa, Roma e i suoi immediati dintorni. Come Ostia, dove Nicolino era arrivato che era ancora un bambino insieme alla famiglia.

Già da adolescente, non disdegnava furti e rapine né di mostrare ai delinquenti di mezza tacca della zona la stoffa del capo. Era temuto e rispettato. E lo era anche a Regina Coeli. Proprio qui, don Raffaele gli diede la dritta giusta su come impadronirsi della Capitale: creare bande (o batterie) in ogni quartiere che avessero un solo gruppo di riferimento. Per mettere in atto l'idea, Nicolino strinse un accordo con Franco Giuseppucci, er Fornaretto e poi er Negro, pure lui a quel tempo ristretto in una cella dell'istituto capitolino, in seguito sarà riconosciuto da tutti come leader. Nasceva così la Banda della Magliana. E un sardo era tra i suoi fondatori. E sardi, almeno di origine, erano anche Paolo Frau, di Ostia, e Pietro Sanna, nato a Oristano e trasferitosi nel Lazio intorno al 1960. Entrambi legati a Selis da un rapporto di amicizia e, da non sottovalutare, di provenienza geografica.

Per capire l'influenza di Nicolino Selis all'interno del neonato gruppo criminale basterebbe leggere i verbali d'interrogatorio di Maurizio Abbatino, noto "Crispino" (il "freddo" di Romanzo Criminale), dopo aver deciso di collaborare con gli inquirenti: "Chi aveva motivi a volere la morte di "Franchino er criminale" (Franco Nicolini, il boss delle scommesse clandestine all'ippodromo di Tor di Valle, ndr) era Selis: ci chiese di aiutarlo per saggiare la nostra affidabilità nel momento in cui vi era la prospettiva di realizzare la fusione tra il nostro e il suo gruppo. Non chiedemmo spiegazioni, Selis si limitò a dirci che si trattava di un fatto personale". Esattamente uno schiaffo che Nicolini rifilò a Selis in carcere, al termine di una discussione, davanti a diversi testimoni. Un'onta insopportabile per il giovane sardo. Quell'omicidio, commesso il 25 luglio del 1978 nei parcheggi dell'ippodromo, è stato il cosiddetto "battesimo di fuoco" della Banda della Magliana e sancì, questo è l'aspetto più importante, la coesione del sodalizio di delinquenti che da quel giorno muoverà alla conquista della capitale, riuscendo nell'operazione nel giro di pochi mesi.

Selis, grazie ai buoni uffici con Cutolo, aveva un parte di rilievo nell'approvvigionamento di droga e armi e un canale privilegiato per il riciclaggio attraverso la camorra. E poi si sentiva intoccabile, don Raffaele in quegli anni era potentissimo e non avrebbe mai permesso che al suo pupillo romano venisse torto un solo capello. Anche se Nicolino approfittava un po' troppo della sua condizione di privilegiato. Eccedeva con la cocaina, era piuttosto irascibile e alzava la posta con pretese che finirono per indispettire il resto della banda. Anzi, subito dopo la morte di "er Negro", ucciso nel settembre del 1980 dai sicari di una gang rivale, vedendo che Selis nemmeno nascondeva l'idea di prendere il posto del capo, senza avere però il carisma di Giuseppucci, i big del gruppo cominciarono a riflettere su come eliminare "il Sardo". Enrico "Renatino" De Pedis, Antonio Mancini "l'Accattone", Danilo Abbruciati "il Camaleonte" (morirà a Milano nel 1982 dopo aver sparato a Roberto Rosone, vice presidente del Banco Ambrosiano) e "Crispino", tra gli altri, non vedevano l'ora di eliminare Nicolino Selis, l'arrogante che si era messo in testa di comandare. Di più, di comandarli.

C'era Cutolo, però: dal carcere continuava a guidare la sua organizzazione nonostante l'attacco alla Nco sferrato dalla Nuova famiglia (i clan Zaza, Bardellino e Nuvoletta) stesse facendo vacillare il suo potere. Quindi Selis era intoccabile. Non ancora per molto. La guerra di camorra che stava insanguinando Napoli e hinterland costrinse i vertici del ministero dell'Interno a trasferire don Raffaele ad Ascoli e poi all'Asinara. In questo particolare frangente, l'influenza di Cutolo andò scemando. Selis, nel frattempo, ne combinava una dietro l'altra mettendo di conseguenza a rischio la sua vita. Impartiva ordini dal manicomio giudiziario, dove si trovava sul finire del 1980, che fuori eseguivano sempre più controvoglia. L'ultima sua smargiassata fu quella di chiedere la stecca su una partita di droga per la banda: lui avrebbe dovuto tenersi due terzi e il restante concederlo agli altri. Firmò così la sua condanna a morte.

In libertà per qualche giorno grazie a un permesso, i suoi nemici poterono finalmente organizzare la trappola. Avvicinarono Antonio Leccese, cognato di Nicolino (era sposato con Anna Paola Selis), per chiedere un incontro rappacificatore e stabilire eventuali nuove strategie. Era il 3 febbraio del 1981. All'appuntamento, davanti alla fiera di Roma, all'Eur, Leccese e Selis, arrivano puntuali. Ad attenderli, "Crispino", "Renatino", "Camaleonte", "l'Accattone", Marcello Colafigli "Marcellone", Edoardo Toscano "l'Operaietto", Raffaele Pernasetti "er Palletta". Leccese, in libertà vigilata, lasciò il gruppo per rientrare a casa. Gli altri, invece, si diressero alla villa di Libero Mancone, uno dei fidatissimi di Selis. Nicolino non doveva trovare nulla di sospetto.

Entrati nel salone, Abbatino aprì una scatola di cioccolati da dove tirò fuori una pistola e sparò, lo stesso fece Mancini. Due colpi per chiudere la parabola criminale di Nicolino Selis, il sardo che voleva diventare re di Roma. Il suo corpo, stando al racconto dei suoi stessi assassini, è stato sepolto lungo gli argini del Tevere. Nonostante le ricerche, avviate molti anni dopo la morte, i resti non sono mai stati trovati. La sera in cui venne fatto fuori Selis, morì anche Antonio Leccese. Era un testimone scomodo, l'unico ad aver visto il cognato con i pezzi grossi della banda e che avrebbe potuto parlare. Non gliene diedero il tempo. Finì male anche per Giuseppe Magliolo, killer al soldo di Selis, che avrebbe voluto vendicare il suo boss. Ma prima che lui trovasse gli assassini, gli assassini trovarono lui e lo uccisero a novembre del 1981.
© Riproduzione riservata