Un triplete l'ha fatto anche lui: tre argenti appena conquistati ai Mondiali di apnea a Lignano Sabbiadoro, settantatré chilometri da Udine, dove Ottavio Demontis il 16 novembre è arrivato da outsider. «Mai prima d'ora avevo partecipato a una gara iridata», dice al telefono da Nuoro, la sua città.

Lunedì 20 è tornato a casa da atleta rivelazione: vicecampione del mondo per tre volte, in altrettante specialità, a 48 anni, categoria paralimpica. Perché Demontis si è ammalato due volte: la prima a sette anni, quando gli venne diagnosticato un sarcoma di Ewing, un tumore ad alto grado di malignità. «Roba che mangia le ossa», spiega. Da lì l'odissea delle cure a Bologna. «Guarito grazie a mia mamma Antonina che non ha mai smesso di infondermi forza e coraggio». A ventuno anni la caduta dalla moto. Una ferita profonda. Un batterio che infetta la carne e spinge i medici a decidere l'amputazione. «Non ne ho mai fatto un cruccio», precisa. Ma soprattutto: «In acqua non ci sono differenze. Nel nostro elemento primo siamo tutti uguali».

Un'altra immagine di Ottavio Demontis (foto concessa)
Un'altra immagine di Ottavio Demontis (foto concessa)
Un'altra immagine di Ottavio Demontis (foto concessa)

Come si sta con tre argenti al collo?

«Benissimo».

Quanta fatica c'è dietro?

«Molta. Mi alleno quattro volte a settimana su sette. Due in piscina e due in palestra. Entriamo in acqua alle 9 e mezzo di sera. Usciamo alle undici. Poi mi aspetta un'ora e spiccioli di viaggio per fare il percorso inverso, da Olbia a Nuoro».

Chi gliela dà la forza?

«La passione. Sono sempre stato uno sportivo. Ma prima di scoprire l'apnea facevo il bodybuilder».

In acqua come è arrivato?

«Amo il mare, visceralmente. Lo vivo proprio, sono sempre andato a pescare. Amo tutte le sfumature del mare. Del blu soprattutto. Il cobalto è il mio preferito».

Le tre medaglie a quali specialità corrispondono?

«Alla dinamica con le pinne, alla dinamica senza pinne e alla statica. La prima specialità è chiamata anche rana subacquea: conta la distanza fatta senza respirare. Io ho percorso 70 metri e dieci centimetri. Quasi una vasca e mezzo, nella piscina da cinquanta. Con le pinne sono arrivato a 117 metri e 40. Il terzo giorno di gara abbiamo fatto la statica e ho superato me stesso: 6 minuti, 3 secondi e 4 decimi. Ho perso il titolo mondiale per un soffio».

Come si fa a non respirare per tutto quel tempo?

«È un esercizio di testa. In ipossia cambia la percezione del corpo, del tempo e dello spazio».

Sì, ma come si fa?

«Tante ore di allenamento. E meditazione. Corpo e mente si possono adattare a quote di ossigeno sempre minori. Bisogna solo capire qual è il momento giusto per uscire e non andare in black-out».

Per approdare ai Mondiali che strada ha fatto?

«Sono stato chiamato in Nazionale dopo i Campionati italiani di giugno, a Torino, dove sono arrivato primo di classe e terzo nella classifica generale».

Nelle gare paralimpiche come sono divise le categorie?

«Nella classe uno ci sono i disabili intellettivi. Nella 2, alla quale appartengo, gareggiano gli atleti a cui manca un arto. La classe 3 raggruppa i ciechi, la 4 i pluriamputati o chi non riesce a utilizzare mani e piedi. Alla 5 appartengono gli sportivi con la sindrome di Down. In alcune classi, ma non nella mia, ci sono anche le sottocategorie».

Se lo aspettava il triplete?

«No. Eravamo una settantina di atleti, in arrivo dai cinque Continenti. Dopo Torino e l'ingresso in Nazionale, ho lavorato duramente. Anche d'estate, anche quando le piscine erano chiuse. Ma non potevo immaginare un exploit di queste proporzioni. Ringrazio per questo i miei compagni di “Passione apnea”, la squadra di Olbia con la quale mi alleno. Ma anche e soprattutto la nostra guida, Antommaso Fresi, un maestro e un leader. A Lignano c'era anche lui: la Federazione nazionale, di cui è tecnico, l'ha chiamato per dare una mano nell'organizzazione. Per me è stato un supporto indispensabile».

A Olbia come ci è arrivato?

«Mi sono iscritto nella società di apnea per fare un corso: quando andavo a pescare, avevo difficoltà a scendere in profondità. Non sapevo compensare. Così ho contattato il club e ho scoperto l'amore per l'apnea. Dalle lezioni base sono passato a quelle più difficili. Ed eccomi qua».

In mare non gareggia mai?

«Sì, d'estate, quando si fa l'apnea in assetto costante: si scende giù tenuti a un cavo».

Dove si trova meglio, in piscina o al mare?

«Mi piacciono entrambi gli ambienti».

La prima delle tre medaglie conquistate a Lignano in che specialità era?

«La rana subacquea. Poi ho fatto la dinamica con le pinne e infine la statica. È proprio vero che la fame vien mangiando. La statica non è la mia passione, di solito questa gara non la faccio mai. Prima di Lignano, il mio personale era di quattro minuti e 20 secondi. Sono arrivato a sei e 3, come ho detto».

Cosa mangia di solito?

«Curo moltissimo l'alimentazione. Pochissimi carboidrati e molti cibi proteici, variando molto tra carne e pesce».

A colazione?

«Due uova con avena e yogurt greco con i quali preparo il pancake, insieme ad altri due albumi».

Dolci?

«Mi piacciono ma non li tocco. Anche questo fa parte delle privazioni necessarie. Cerco però di non togliere troppo tempo alla mia donna: crede in me e in questo mio sogno».

Pranzo?

«Settanta grammi di riso, 200 di pollo, verdura e frutta».

A cena?

«Proteine e verdure cotte».

Quanto è alto?

«Un metro e ottanta, e peso 72 chili. Diciotto in meno rispetto alla mia vita da bodybuilder».

La gamba come l'ha persa?

«Amputata a ventuno anni dopo una caduta in moto e un'infezione. È la stessa gamba in cui da bambino, a sette anni, mi era venuto in sarcoma di Ewing. Nel 1984, quando mi sono ammalato io, non ce la facevano nove bambini su dieci. Anch'io ne ho visti morire parecchio. Miei compagni di ospedale a Bologna, dove la mia famiglia mi portò per le cure».

Da bambini come si sopravvive alla sofferenza?

«Certamente il buon Dio ha voluto che continuassi a vivere. Ma anche mia madre mi ripeteva di continuo che sarei guarito. Mia mamma Antonina è la mia roccia. Ogni figlio si fida ciecamente della propria madre».

A ventuno anni dove ha trovato l'energia per farcela ancora?

«In mia mamma e ancora in Dio. Che io ho visto nella mia vita. Io sono un miracolato del Signore».

La disciplina cos'è?

«Lo sport mi è stato di grande aiuto nella vita. Io non mi sono mai pianto addosso. Ho sempre accolto il dolore e gli insuccessi come parte di un processo formativo. Lo sport è una metafora della quotidianità: perdendo e sbagliando si impara a capire da dove ripartire. Bisogna solo riuscire a tenere la calma, a trovare sempre il lato buono».

Nella vita che lavoro fa?

«Il ragioniere al Consorzio di bonifica del Nuorese».

Adesso non si riposa?

«Sì, adesso è il tempo della gratificazione e della festa. Ma la strada davanti a me è lunga. Sono ambizioso: sogno i cinque cerchi, l'illusione di qualsiasi sportivo. Per me ancora di più: non avere una gamba è la più grande forza della mia vita. Io ci scherzo e lo ripeto spesso: mi alzo sempre col piede giusto».

In acqua usa la protesi?

«Mai. Il bello dell'acqua è che annulla le differenze fisiche. In acqua la protesi nemmeno la vorrei: la percepirei come una cosa posticcia. Quando mi immergo, mi sento libero, mi rilasso e riesco a dare il meglio di me».

Quanti mari conosce?

«Molti. Sono un grande viaggiatore. L'anno scorso in Sud Africa mi sono immerso con la gabbia per vedere da vicino gli squali bianchi. La miglior barriera corallina l'ho ammirata in Giordania.  Il bello del mare è che dopo i venti metri cambia tutto».

In che senso?

«Sino a venti metri, l'acqua ti porta verso l'alto. Superato quel limite, il mare ti attira. Bisogna chiudere le braccia, tenendole lungo i fianchi. Scendi in picchiata, viaggi un metro e mezzo al secondo. L'unica azione da fare è compensare. Si vola nell'azzurro. Dal cobalto a tutte le altre tonalità. Mi sento Superman».

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