Pietro Cambedda aveva deciso di scappare. Insieme con l'amante Rosalba Canu, matrigna di Elisabetta Bruno, la moglie morta ammazzata neanche qualche giorno prima, il 62enne di Settimo stava progettando una fuga che gli consentisse di sfuggire a un arresto ormai imminente. Il suo racconto, quello riguardante le ore immediatamente successive al delitto, si era sciolto come neve al sole ai primi riscontri e, soprattutto, non aveva retto davanti alle tante testimonianze raccolte dai carabinieri di Quartu e Sinnai sui suoi spostamenti nel giorno dell'omicidio (tante persone l'avevano visto con la vittima, mentre lui diceva di essersi spostato da solo). Così l'assassino - che solo una volta messo alle strette avrebbe poi confessato le sue colpe - aveva preso la decisione: andare via e, magari, portare con sé la nuova compagna.

INTERCETTATO È questo uno dei motivi che hanno spinto il giudice per le indagini preliminari Alessandro Castello a convalidare il fermo e disporre la custodia cautelare in carcere per il falegname in pensione. Le risultanze delle indagini, quando ormai il caso è a un passo dalla chiusura, parlano chiaro: il timore che l'indagato potesse prendere i largo era molto più che reale. Quasi una certezza, venuta a galla grazie alle intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura nei giorni che avevano seguito la scomparsa di Elisabetta Bruno.

LE FAVE Proprio una serie di messaggi tra lui e Rosalba Canu hanno consegnato agli investigatori la prova della sua colpevolezza. In alcuni sms, che i due si erano scambiati a distanza di giorni dal delitto, parlavano della possibilità di scappare (la Canu, difesa dal legale Carlo Monaldi, è accusata di favoreggiamento) ma, soprattutto, di un particolare che di lì a poco avrebbe definitivamente incastrato Cambedda: le fave da lui stesso raccolte nell'orto di famiglia il giorno del delitto. Un errore che gli è costato il carcere. Durante un interrogatorio, l'amante del falegname aveva detto ai carabinieri che l'uomo «il giorno della scomparsa di Elisabetta Bruno mi aveva portato a casa delle favette, raccolte nel campo dove è stato trovato il cadavere». Particolare fondamentale, perché l'omicida nei confronti precedenti davanti ai militari aveva sempre negato di essere andato nell'orto quel giorno. Infatti in seguito la stessa Canu aveva spiegato come «qualche giorno prima del ritrovamento del cadavere, Pietro si era dimostrato nervoso perché aveva saputo che io avevo raccontato delle favette. Le aveva lasciate all'ingresso di casa mia. Lui aveva negato, ma io ho detto la verità».

INCASTRATO Negli sms, Cambedda aveva scritto all'amante che quella rivelazione l'aveva messo in grandi difficoltà. Poi il progetto di fuga e la successiva convocazione in caserma a Sinnai. È il 27 maggio scorso, sono le 15,30: messo alle strette, l'uomo crolla dopo sette ore di interrogatorio e alle 22,30 confessa. Ammette il delitto, spiega cosa è successo (anni e anni di liti sfociate nelle quattro picconate alla testa all'ombra degli ulivi coltivati nel loro terreno alla periferia del paese) e indica il punto in cui è sepolto il corpo della moglie.

IN CARCERE Ora Cambedda, seguito passo passo nella vicenda giudiziaria dall'avvocato Massimiliano Dessalvi, è controllato a vista in una cella di Buoncammino: il timore è che tenti il suicidio.

ANDREA MANUNZA
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