Tutelare e conservare il genoma del leccio di Caprera, autoctono, ovvero l’insieme del suo patrimonio genetico, attaccato da parassiti fungini che in molti casi ne provocano l’essiccamento cioè la morte; e questo prima che i danni provocati siano così gravi da rendere inutile qualsiasi tentativo di tutela. Per far ciò si sta mettendo in atto una gestione fitosanitaria attiva.

Gli interventi consistono nel taglio delle piante essiccate o ormai compromesse e la somministrazione alle altre di prodotti e agenti di varia natura e caratteristiche, chimici e biologici. «I risultati ci sono già», ha affermato la dottoressa Forestale Paola Brundu, funzionaria tecnica del Parco Nazionale, nel corso del convegno “Progetto Clima”, organizzato dall’ente qualche giorno fa.

«Se voi fate un giro a Caprera, troverete, sulla strada per Arbuticci, un’area recintata, con un cartello che la identifica come area sperimentale, e lì vedrete che ci sono gli unici lecci ancora verdi in tutta la zona».  

È questo uno degli obiettivi che sta perseguendo il Parco nazionale, utilizzando un finanziamento di circa 200.000 euro. Ma le leccete, come anche le pinete e gli altri alberi presenti a Caprera, devono essere difese anche dagli incendi, per cui il progetto, realizzato dalla D.R.E.AM. Italia Soc. Coop. Agr. For. -  Pratovecchio Stia (Ar), prevede interventi atti a ridurre il carico di combustibile ad alta infiammabilità, rappresentato dalle piante di leccio morte o fortemente compromesse. Il materiale raccolto non viene bruciato a Caprera ma «traslocato verso una centrale biomassa».

Sono previsti nel contempo interventi anche sui pini che esercitano concorrenza sulle leccete e/o rappresentano un rischio per la fruizione, anche attraverso potature delle parti di chioma seccaginose. L’intervento riguarda un’area piuttosto vasta, posta al centro dell’isola, nella zona tra il bivio per la ex fortezza di Poggio Raso e quella di Arbuticci.  

L’allarme, ha ricordato la dottoressa Brundu, sulla moria dei lecci (ma non solo) risale a 13 anni fa, quando, nel 2011 appunto, il Parco Nazionale si rese conto, insieme al Corpo Forestale presente sul territorio, di questo fenomeno di moria. Fu fatta così una convenzione con l’Università di Sassari per studiare tale problematica. Le ricerche si sono protratte dal 2011 al 2017 con l’individuazione delle cause attribuite a patogeni, funghi e non. Ci furono anche alcuni convegni per fare il punto della situazione, nel corso dei quali emerse come la propagazione fosse facilitata da calpestio umano come anche da quello degli ibridi di cinghiale. Nel convegno di qualche giorno fa la dottoressa Brundu ha parlato anche di una sorta di indebolimento immunitario delle piante, legate ai persistenti periodi di siccità, a causa dei quali diverrebbero di più facile preda di questi patogeni.

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