Fognopoli in Planargia, al via il processo
Dagli atti della Procura di Oristano emergono fatti gravissimi: sversati nei terreni oltre 7.000 tonnellate di rifiuti
Le terre sono quelle incantate della Malvasia di Bosa, alle pendici del Montiferru. Terre protette, per la legge e per la storia. Il calvario della Planargia, tra Magomadas e Tresnuraghes, Tinnura e Flussio inizia nell’estate del 2019. La quiete di quei luoghi è devastata da un incedere perforante di un tanfo nauseabondo senza precedenti. Entra nelle case, “sfonda” le finestre di interi centri abitati, impone il coprifuoco a centinaia di famiglie. Una colonna infinita di tir carichi di fanghi fognari provenienti dalla lontanissima Puglia si riversa a due passi dal paese di Magomadas. A centocinquanta metri dal centro abitato, per le vicende mai chiarite della pubblica amministrazione, è stato autorizzato e persino realizzato quello che sarebbe dovuto essere un impianto di trattamento dei fanghi fognari della terra dell’Ilva di Taranto, di Bari, Monopoli, Altamura e Brindisi.
Fiume fognario
Un fiume fognario destinato ad attraversare prima mezza Italia, poi il Tirreno sino a raggiungere quell’enclave illibato della Sardegna occidentale. La guerra dura un anno, da una parte una comunità devastata da quella “via fognaria” pugliese e dall’altra la Geco, una srl che di punto in bianco diventa il punto di riferimento della Puglia per lo smaltimento dei fanghi fognari di un’intera Regione. In realtà fanghi fognari che nel “tacco d’Italia” nessuno voleva trattare perché impestati di ogni genere di sostanze, tanto che gran parte degli impianti della Puglia erano stati chiusi con tanto di provvedimenti giudiziari e non solo. Dunque, la Geco diventa un’enclave pugliese in terra sarda, mettendo a soqquadro un territorio intero. Protestano gli abitanti, non solo di Magomadas, nascono i comitati di difesa del territorio, della Malvasia di Bosa protetta da un decreto del Presidente della Repubblica. Dormono le istituzioni competenti, per tante omissioni e molte complicità territoriali.
Il blitz della Procura
A fermare quello percepito dai cittadini come un disastro ambientale ci pensa la Procura della Repubblica di Oristano. Il provvedimento è dirompente, come era urgente: impianto sequestrato. Il Pubblico Ministero Marco De Crescenzo ha le carte in mano di quel “carico” nauseabondo, le testimonianze raccolte dalla Forestale, un via vai in Procura di cittadini che mettono a verbale malesseri e fastidi di ogni genere. Una comunità sotto sequestro, costretta a starsene chiusa a casa, per non essere aggredita da quel tanfo insopportabile che avvolge il paese intero. Saranno le indagini successive a raccontare una storia ben più grave, nonostante il fatto che il disagio imposto ai cittadini della Planargia fosse già sufficiente per fermare quel fiume in piena di fanghi fognari che dalla Puglia si stava riversando nei promontori della Malvasia.
I numeri dell’accusa
I numeri della Procura e dei consulenti incaricati sono un pugno in faccia alle caratteristiche esclusive di quei terreni destinati alla produzione di quel vino unico e rinomato. I capi d’imputazione per l’amministratore della Geco Leonardo Galleri vanno dalle «attività di gestione di rifiuti non autorizzata» al «versamento in un luogo di pubblico, transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone provocando emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti». I fatti sono messi nero su bianco sul decreto di citazione a giudizio. L’accusa è diretta e riguarda una montagna incontrollata di rifiuti finita nelle terre della Planargia: «sversava nei terreni in agro di Tinnura e Magomadas, 7.013 tonnellate di fanghi di depurazione miscelati con residui di frantumazione di inerti, da considerarsi a tutti gli effetti di legge "rifiuti" (speciali non pericolosi) e non "ammendante", in tal modo effettuando uno smaltimento illecito degli stessi». Precisa ulteriormente il Pubblico Ministero: «la sostanza sversata nei predetti terreni va considerata "rifiuto" e non "ammendante"».
Rifiuti senza appello
Rifiuti, dunque, non ben di Dio da scaraventare di qua e di là nelle campagne della Malvasia. A mancare erano proprio i requisiti di fondo: il materiale in oggetto non soddisfa i criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto. A questo va aggiunto che «la Geco non aveva mai ottenuto dal Ministero per le Politiche Agricole e Forestali l'autorizzazione alla sua commercializzazione o comunque la registrazione del prodotto, necessaria ai fini della commercializzazione». In quel “rifiuto” ci avevano fatto finire di tutto da inerti da demolizioni, residui di cemento, ceramica, laterizi, materiali plastici, sino a sostanze pericolose per la stessa salute umana, come «la comparsa e l’incremento della concentrazione di alcuni metalli pesanti e degli idrocarburi».
Disfarsi dei rifiuti
La sintesi della Procura è pesantissima: «tale sostanza è stata versata nei terreni in oggetto senza alcuna ragione di natura agronomica ma al solo scopo di disfarsene». L’atto d’accusa è circostanziato anche per le ripercussioni di quei rifiuti fognari sulla cittadinanza: «diffondeva nell'area circostante l'impianto, ivi compresi i centri abitati di Magomadas, Tresnuraghes, Flussio e Tinnura, emissioni odorose nauseabonde, che creavano agli abitanti dei predetti paesi rilevanti molestie e fastidi e in alcuni casi anche problemi di salute, tali da costringerli a modificare le proprie abitudini di vita».
Processo al via
Stamane al Tribunale di Oristano il processo per la “fognopoli pugliese” in terra sarda entra nel vivo. Centinaia di pagine di perizie, analisi e pareri tecnici saranno al centro del dibattimento guidato dal Giudice Paola Bussu. In campo ci saranno i legali della Geco e quelli delle parti civili costituite nel procedimento, dai singoli cittadini al Comitato Acqua bene Comune Planargia e Montiferru, Italia Nostra Sardegna, il Comitato Ambiente Planargia, i Comuni di Magomadas, Tresnuraghes, Flussio e Tinnura. Se fosse per la Geco il tutto si dovrebbe chiudere con una “sanzione pecuniaria”, come se si fossero dimenticati un sacchetto della spazzatura per strada. Le parti civili non ne vogliono nemmeno sapere di un’oblazione. Lo scrivono senza mezze frasi nelle memorie agli atti processuali: si tratta di fatti di una gravità inaudita che hanno provocato gravi pericoli per l’ambiente e la sicurezza pubblica, chiediamo una pena esemplare per evitare che questo attentato alla salute e all’ambiente possa ripetersi.