Comprendere cosa si nasconda dietro gli atti criminali condotti in danno di tante Donne non è affatto semplice, e l’urgenza del “dover”, e nel “dover” intervenire per porre un argine significativo ad un “fenomeno socio-culturale” criminale e deformante in continua crescita, induce riflessioni significative, sebbene talvolta piuttosto amare nei loro esiti, siccome inserite nell’ambito di un contesto umano patologico ove “prevenire”, “proteggere” e “perseguire” sono espressioni parimenti significative di un paradigma dogmatico e giuridico di intervento che a tutt’oggi, purtroppo, malgrado l’indiscussa valenza ideologica, non riesce, sul piano pratico, a garantire l’incolumità delle potenziali vittime.

Talvolta (perlomeno questa è la sensazione), la stessa “narrazione” che ne scaturisce appare come gravemente “viziata” da una “schematica” spettacolarizzazione di base che individua il “predatore”, l’“uomo padrone”, alla stregua di una bestia psicopatica feroce (quasi che la patologia, se davvero esistente, possa giustificarne l’agire), incapace di gestire le proprie pulsioni violente, e la “vittima” quale “preda” in qualche modo ingiustamente “corresponsabile” (il che è semplicemente assurdo e fuorviante) per non essere riuscita e/o per non riuscire ad uscire da un circuito a senso unico di sopraffazione intermittente quando non anche quotidiana nei casi più gravi. Un “pre-concetto”, quest’ultimo, evidentemente distorto per essere sorprendentemente condizionato dai riflessi ancora preponderanti di una certa matrice culturale di stampo sessista che ancora sembra sopravvivere nelle nostre comunità, troppo spesso (forse volutamente) “distratte” rispetto a fenomeni che andrebbero invece approfonditi ed eradicati attraverso un costante ed intenso lavorio educazionale che dovrebbe partire dai singoli contesti familiari (paradossalmente palcoscenico del dramma) per estendersi, di conseguenza, anche all’interno delle scuole di ogni ordine e grado.

La circostanza che esistano Donne loro malgrado incapaci di fuggire da uomini violenti, di proteggersi rispetto ad atteggiamenti prevaricatori e dominanti sviluppando nei loro confronti una vera e propria “dipendenza” disfunzionale non significa affatto condividerne e accettarne l’operato: quella incapacità, il più delle volte, per non voler dire sempre, come pure quel dannato istinto prevaricatore rappresentano il risvolto di una fragilità endemica (quella femminile), e di una rabbia soppressa (quella maschile) maturate, a loro volta, in un contesto familiare “originario” di provenienza già gravemente viziato nell’esplicazione delle relazioni sentimentali più intime. Trasformare il tessuto sociale di riferimento, ne sono consapevole, non è impresa da poco, e il processo richiede tempistiche inadeguate rispetto all’esigenza impellente e contingente di contenere gli eventi tragici. Il clamore mediatico, poi, fungendo da cassa di risonanza di episodi delittuosi efferati, sollecita, sul piano del sentire comune, della pura e semplice percezione del fenomeno, la celere risposta delle Autorità procedenti e delle Istituzioni le quali invero, assai spesso, non riescono ad espletare la funzione preventiva che dovrebbe essergli propria siccome quasi intrappolate in una sorta di automatismo sistematico e sistemico che le “induce” a provvedere, e inefficacemente, solo a “posteriori” e quasi mai “ex ante”, ossia quando sarebbe invece necessario.

Qualunque siano le ragioni di questo “vulnus”, di fatto esso esiste e rappresenta un “limite” inaccettabile. Intanto, per il persistere di tendenze socio-culturali che minimizzano ogni forma di violenza domestica declassandola a puro e semplice conflitto di coppia il più delle volte strumentalizzato nel contesto giudiziario della patologia del rapporto: quello inerente, più comunemente, i procedimenti per separazione e divorzio. Quindi, per l’insanabile attitudine alla rappresentazione stereotipata dei soggetti coinvolti che finisce per intrappolare quello che è un autentico “cancro” del vivere civile in schematismi fuorvianti per nulla espressivi della gravità del fenomeno. Infine, perché, ancora oggi, e nonostante tutto, si avverte una certa difficoltà diffusa a concepire il neologismo “femminicidio” come realmente significativo di tutte le forme di violenza di genere e di discriminazione dirette all’annullamento della Donna in quanto tale, non soltanto nella sua identità e nella sua capacità di autodeterminazione sul piano fisico, ma anche, e soprattutto, sul piano psicologico e di relazione.

Ogni forma di atteggiamento violento, di atto prevaricatore perpetrato in danno ad una Donna, di qualunque ordine e classe sociale trattandosi di un fenomeno trasversale, è strettamente correlato all’esigenza di esprimere un “potere” innaturale il cui fine ultimo si esprime sistematicamente nella tendenza all’esercizio insinuante di una sottomissione umiliante e condizionante sul piano emozionale che imprigiona la vittima in vortice di paure bloccanti siccome alimentate da un indotto e subdolo senso di colpa in realtà ingiustificato. Se volessimo tradurre queste riflessioni sul piano più squisitamente pratico, dovremmo dire: che occorre, preliminarmente, sostenere la Donna “vittima” per aiutarla a raggiungere quel livello sufficiente di consapevolezza riferita al proprio vissuto che sia utile ad annullare ogni tendenza alla colpevolizzazione di sé per la violenza subita; che occorre, parimenti, dissolvere ogni convinzione disfunzionale ancora sussistente nei contesti sociali di riferimento espressivi del “dramma relazionale”, quale, a titolo esemplificativo, la minimizzazione della violenza, il rifiuto sociale alla presa d’atto dell’esistenza di un problema, la sua interpretazione in chiave solamente patologica; che occorre, altresì, imparare a ragionare in termini di “prevenzione” per evitare di intervenire solo quando l’atto violento si fosse inevitabilmente consumato nell’indifferenza generale.

Taluno potrebbe obiettare che il principio di non colpevolezza potrebbe costituire un limite ad ogni forma di “condanna” preventiva preconcetta fondata sulla sola “denuncia” di parte priva di un preventivo e compiuto accertamento. Per questo ritengo che il legislatore, malgrado i numerosi interventi legislativi in materia, da ultimo il cosiddetto “Codice Rosso”, non sia ancora riuscito a rinvenire formule accettabili di intervento pre-cauzionale che siano idonee a tradursi senza difficoltà sul piano pratico. Non sempre, infatti, le misure cautelari ivi contemplate si rivelano sufficienti ad inibire la condotta anti-giuridica degli aggressori i quali, dominati da veri e propri deliri di onnipotenza si fanno leciti di violare comunque le disposizioni del giudice procedente ritenendole ingiuste. Nonostante tutto, e nonostante le varie forze politiche sostenitrici del provvedimento abbiano gridato al successo, tuttavia, anche il “Codice Rosso” rappresenta di fatto un intervento rudimentale, un palliativo inidoneo se parametrato ad una realtà ancora incapace di educare gli uomini al rispetto delle donne.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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