"Regolarizzare i migranti è motivo della mia permanenza nel Governo". Così tuonava, solo qualche giorno fa, il ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali Teresa Bellanova, aggiungendo, peraltro, a scanso di equivoci e sterile propaganda, che le persone di cui ci si stava occupando non avrebbero potuto portare alcun consenso trattandosi di "persone", appunto, che non sarebbero mai state chiamate ad esprimere, un domani, il proprio voto.

Dal canto suo, Luciana Lamorgese, ministro dell’Interno, aveva a sua volta precisato, manifestando per ciò stesso una chiara e inequivocabile apertura al dialogo in argomento, seppure limitatamente al settore agricolo, che "il problema che si pone(va) è(ra) quello della raccolta", quindi, "bisogna(va) fare emergere chi lavora(va) in nero anche per una questione di sicurezza". Fin qui, nulla quaestio. La ragionevolezza di una proposta di tal fatta, che tutto sommato riflette la necessità di concedere un permesso di soggiorno della durata di soli sei mesi, eventualmente rinnovabile per un ulteriore pari periodo, sembra emergere in maniera incontrovertibile, tanto più quando, come nel caso di specie, la stessa abbia carattere meramente temporaneo e sia giustificata dall’esigenza di andare incontro alle pressanti necessità del mercato, gravemente compromesso, anche in termini di reperimento della manodopera, dall’emergenza pandemica.

Eppure, non è mancato chi, a torto, secondo il mio umile pensiero, ha ritenuto di dover comunque esprimere le proprie perplessità, come ad esempio il Movimento 5 Stelle, il quale per un verso intravede, in questa che definisce erroneamente come una "sanatoria", solo uno strumento utile (sia pure non si veda davvero come) a favorire ulteriore illegalità, e per altro verso, e per ciò stesso, sembra collocarsi, e direi inspiegabilmente, in una dimensione di contrasto rispetto alle stesse raccomandazioni programmatiche del premier Conte, il quale, all’indomani dei fatti del Papeete, in occasione del discorso alla Camera, aveva avuto modo di ricordare, proprio con riferimento alla discussione sull’immigrazione, le esortazioni dell’indimenticato Presidente della Repubblica socialdemocratico Giuseppe Saragat: "Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano. Ricordatevi che la democrazia non è soltanto un rapporto tra maggioranza e minoranza, non è soltanto un armonico equilibrio di poteri sotto il presidio di quello sovrano della Nazione, ma è soprattutto un problema di rapporti tra uomo e uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste. Dove sono inumani essa non è che la maschera di una nuova tirannide".

Ma se così stanno le cose, o meglio, se la discussione sull’immigrazione con il Governo Conte bis ha dismesso il suo carattere emergenziale e propagandistico per assumerne uno più correttamente strutturale, perché il dibattito continua a rappresentare un fertile terreno di scontro tra le varie forze politiche? Quali sono, e perché da parte di taluni sono guardati con sospetto, gli effetti sul piano sociale e politico della potenziale attuazione della Riforma Bellanova già inserita, sembrerebbe, sia pure non si conoscano ancora i dettagli, nella bozza del Decreto Maggio? Perché, fino ad oggi, il nostro Bel Paese ha assunto un atteggiamento di forte reticenza nell’esercizio di una politica attiva e coerente inerente la gestione e la regolamentazione degli "ingressi"? E perché i Governi via via succedutisi nel corso degli anni hanno costantemente trascurato il problema reale, e con esso la conseguente regolamentazione, del processo di stabilizzazione degli stranieri presenti nel territorio nazionale?

Le risposte a queste domande, forse, potranno ai più apparire scontate, tuttavia, a mio sommesso modo di considerare, è proprio su di esse che si gioca una importante "partita" ideologica sugli esiti della quale, tra le tante altre, si giocherà poi quella decisiva sulla sopravvivenza dell’attuale esecutivo.

Intanto perché, sebbene l’emergenza pandemica abbia preso il sopravvento ponendo in stand-by qualsivoglia altra problematica interna, che pure, paradossalmente, si ripresenta amplificata in ragione di quella stessa condizione emergenziale, tuttavia, non sarà forse superfluo ricordare che proprio la gestione delle questioni migratorie avrebbe dovuto costituire l’elemento di novità, e di conseguente discontinuità, tra il c.d. Governo giallo verde Conte 1 ed il c.d. Governo giallo rosso Conte 2, sicché inciampare, proprio in questo momento così delicato per il mantenimento degli instabili equilibri di potere, sul buon esito della proposta Bellanova a causa di qualche nostalgico della politica dei "porti chiusi" e di tutte le sue implicazioni significherebbe non solo riconoscere, ed è quasi ozioso doverlo sottolineare, la insidiosa fragilità dell’attuale esecutivo, ma anche esporlo, probabilmente, a subire i contraccolpi devastanti di una crepa difficilmente cementabile nel prossimo immediato futuro.

Quindi perché, sul piano più squisitamente sociale, la proposta del ministro Teresa Bellanova, pienamente calata nel suo ruolo e consapevole del valore del pragmatismo nel proprio ambito di pertinenza, cristallizza l’inclinazione a voler incidere direttamente sul tessuto quotidiano collettivo del Paese, declinando in direzione certamente espansiva (ed è questo che preoccupa gran parte dell’opinione pubblica in larga misura condizionata dalla sterile, perché all’esito priva di contenuti pratici, propaganda del "“prima gli italiani") la tendenza all’"integrazione", fino ad oggi gravemente trascurata, quale principio essenziale di una politica dell’accoglienza che voglia veramente definirsi tale.

Inoltre perché, a ben considerare, quello dell’immigrazione rappresenta da sempre un fenomeno che, ben lungi dall’esaurirsi nel breve termine, sarà destinato, Covid– 19 o non Covid-19, a persistere negli anni, sicché, in assenza di una linea politica chiara, imperniata sulla stabile regolamentazione della disciplina degli ingressi e della conseguente integrazione, continuerà a rappresentare un appetibile terreno di scontro per tutte quelle forze politiche che, facendo leva sul malcontento generalizzato di una certa parte della popolazione autoctona, potranno fare affidamento su un bacino piuttosto ampio di acquisizione di consenso in funzione destabilizzante.

Infine perché il persistere, tra il detto e il non detto, della contrapposizione tra quelle che spesso si considerano come categorie distinte dell’umanità, ovvero i vari "noi nazionali" da una parte, e "gli altri alieni" dall’altra, ha di fatto favorito un approccio deformante nei confronti dei fenomeni migratori impedendo di considerare i medesimi per ciò che realmente potrebbero rappresentare, ossia una assoluta opportunità laddove esistano programmi politici chiari che lungi dal ricorrere ad inutili e fuorvianti sanatorie, riescano ad esprimere la consapevolezza del valore della diversità.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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