Ha pubblicato l'annuncio di lavoro nel suo profilo Facebook: era convinta che, tra tanti disoccupati in circolazione, avrebbe ricevuto un'infinità di risposte.

Veronica Manunza Pirani, titolare dell'omonima catena cittadina di pasticcerie, pensava che avrebbe avuto l'imbarazzo della scelta. Invece, sono arrivate solo proposte scoraggianti, imbarazzanti. E, alla fine, ha assunto come lavapiatti nel bistrot di via Sulis un giovane senegalese.

La selezione - Una scelta obbligata quella fatta dall'imprenditrice.

Non una scelta "buonista" (per usare un termine diffuso in questo periodo). «Nella nostra azienda», racconta, «lavorano quasi novanta dipendenti, la maggior parte sono sardi». Ma, questa volta, quel posto da lavapiatti (con uno stipendio dignitoso, tra i millecento e i milleduecento euro al mese) sembrava poco appetibile. «Nei primi giorni ho ricevuto una decina di risposte. Assolutamente irricevibili».

Le pretese - Certo, i disoccupati interessati c'erano. Ma solo a determinate condizioni. «Intanto - approccio che trovo decisamente sbagliato - la prima cosa che chiedevano non era il tipo di lavoro che dovevano fare. No, in tanti si sono informati solo sul compenso, sugli orari, sul giorno libero e sulle ferie». D'accordo, non si dovrebbe vivere per lavorare. Ma mettere immediatamente condizioni non è di certo l'approccio giusto. «C'è chi mi ha detto che la domenica non poteva lavorare perché giocava a calcio. Chi mi ha spiegato che di sera non era disponibile perché doveva preoccuparsi della moglie e del figlio. E chi, senza imbarazzo, mi ha chiesto la possibilità di non lavorare nel fine settimana, i giorni, peraltro, nei quali abbiamo la maggior affluenza».

I colloqui - Aspiranti scartati subito. Qualcuno, però, è riuscito a raggiungere lo step successivo: il colloquio. «Solo che ha pensato di non presentarsi all'appuntamento».

E anche chi ha rispettato l'impegno, non ha dato una buona impressione. «Non ci si può presentare a un colloquio di lavoro, soprattutto per un impiego in un settore tanto delicato come il nostro, trasandati, sporchi».

La soluzione - Quel messaggio su Facebook, fortunatamente, è stato letto anche da un'amica di Veronica Pirani. «Mi ha suggerito il nome di Papa Diop e ha garantito per lui. L'ho chiamato e, tre ore dopo, era da me per il colloquio. L'impressione è stata ottima, l'ho preso subito».

Il lavapiatti - Così il giovane senegalese, ventotto anni, sposato con una figlia di due anni (la famiglia è ancora nel suo Paese), a Cagliari da dieci anni, è stato assunto. «Sono felicissimo», afferma in un italiano fluente. In fondo, il suo sogno si sta realizzando. «Sono venuto in Italia per studiare e per cercare un lavoro. Purtroppo non ho potuto riprendere i libri in mano perché dovevo aiutare la mia famiglia rimasta nel Senegal». Ha vagato per l'Italia. «Sono stato ad Ancona, Torino, Vercelli». E ha fatto tanti lavori. «Il pizzaiolo, l'aiuto cuoco, il lavapiatti». Poi, negli ultimi tempi, tornato a Cagliari dove vive con il fratello più piccolo, ha fatto il parcheggiatore. «Ma non mi piaceva per niente: detesto scocciare la gente». Quel lavoro al bistrot di via Sulis è il coronamento di un sogno. «Perché mi dà la dignità: ora guadagno davvero uno stipendio». E chissà che questo non sia solo un punto di partenza. «La nostra», riprende Pirani, «è un'azienda in continua espansione: chi lavora bene può crescere, può aspirare a ruoli sempre più importanti». Compreso Diop che, tra l'altro, oltre il wolof, la lingua ufficiale del suo Paese, e l'italiano, parla francese e, seppure non perfettamente, inglese e spagnolo.

Marcello Cocco

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