Una delle conquiste della Rivoluzione francese fu indubbiamente il controllo popolare degli atti autoritativi dello Stato. Ciò che contribuì a superare l'ancien régime e aprire alla nostra recente storia democratica. Tra i suoi paradigmi più noti v'era l'obbligo, per i giudici, di rendere nota la motivazione delle loro decisioni, affinché tutti ne potessero prendere visione.

Che però quell'insegnamento sia ancor oggi attuale è lecito dubitare. Anzi, si è andata affermando l'idea della giustizia come Potere piuttosto che come servizio pubblico, col risultato di consegnare la valutazione dell'operato dei giudici ai soli "addetti ai lavori".

Il cittadino ne è rimasto escluso, anche se le sentenze sono rese nel nome del popolo (non dello Stato) italiano.

Oggi però l'innovazione tecnologica (soprattutto questa) consente, paradossalmente, un ritorno al passato.

L'informatizzazione dei processi permette infatti di acquisire dati e questi possono essere comparati, valutati, e con essi l'efficienza del sistema giudiziario.

Ma i dati non bastano. Occorre muovere verso una "cultura dei dati" e verso la consapevolezza che la giustizia è un servizio al cittadino e che quest'ultimo, per primo, deve essere messo in condizione di valutarlo.

Alcuni macrodati sono difatti ormai noti: ad esempio che spendiamo oltre 4 miliardi di euro l'anno per la giustizia, con un trend in crescita dal 2015 (+5%), e che il 78% della spesa è destinata al personale. Anche alcuni dati disaggregati sono noti: ad esempio che presso il Tribunale di Napoli il 62% dei procedimenti pendenti ha più di due anni.

A Milano sono il 19%, a Trento e Trieste attorno all'11%. È vero: negli ultimi anni si sono fatti sforzi importanti, anche per le continue sollecitazioni sovranazionali (Consiglio d'Europa, Commissione europea, Corte dei diritti dell'uomo, ecc.) ma gli esiti non sono sempre positivi: ad esempio, su 47 Paesi OCSE, siamo terz'ultimi, dopo Grecia e Slovenia, per i tempi giudiziari.

Con l'ulteriore, nefasto esito, che, invece di allocare meglio le risorse, risolvere i problemi organizzativi e richiedere produttività, da vent'anni riformiamo il diritto processuale, ormai diventato inservibile, e comprimiamo, dimidiandola, la tutela dei diritti.

Ci stupisce anzi che da oltre un secolo ( o molto più) si ricerchino, in altri paesi, le cause della "popular dissatisfaction" verso la giustizia (R.Pound, 1906) e si sia sviluppato un intero filone della sociologia (procedural justice) che studia come migliorare la partecipazione degli utenti al servizio giustizia. Addirittura ci pare strano che si domandino se il cittadino ha fiducia nel sistema giustizia, veda gli operatori interessati a risolvere il suo problema, sia messo in condizione di capire che succede, riesca a prevedere tempi, costi ed esiti.

Da noi, un'indagine Istat del 2015, ci ha laconicamente rivelato che l'11% degli italiani maggiorenni è stata coinvolta almeno una volta in una causa civile ed il 52% si è dichiarato poco o per niente soddisfatto.

Eppure oggi gli strumenti per invertire la rotta ci sono, inclusa l'intelligenza artificiale (IA), usata da alcuni per migliorare le performances (ad esempio in Austria), da altri (come gli Usa) per ridurre i costi, standardizzare i processi e prevedere esiti giudiziari o comportamenti umani (predictive justice).

Si è così diffusa una miriade di programmi dai nomi più esotici: Legalrobot, Casetext, Lexmachina, Ravellaw, Ross, Watson, Hart, Compas, alcuni dei quali già utilizzati (emblematico il caso Loomis, condannato a 6 anni in Wisconsin sulla base delle previsioni del programma Compas).

Vengono dunque in mente proposte suggestive: come consentire su richiesta delle parti (e su diritti disponibili) che il giudice decida la controversia (come per l'equità) in base a un calcolatore (emendando gli artt.113, 114 e 822 cpc). O altre ipotesi simili rese così conformi anche ai dettami della normativa europea sulla protezione dei dati (art. 22, Reg.UE 2016/679).

La tecnologia, infatti, sembra non aver più limiti. Occorre dunque affrettarsi ad utilizzarla prima che lei utilizzi noi, magari concentrando gli sforzi sull'ottimizzazione delle risorse e dei processi organizzativi e lasciando ad esseri umani pensanti i processi decisionali.

Occorre però far presto: l'incombente spending review produrrà i soliti tagli draconiani, col solito effetto di togliere risorse a chi merita e magari darle a chi si impegna o produce meno. Che facciamo allora, ci diamo una mossa? Attendiamo i Robot o attendiamo Godot?

Aldo Berlinguer

Università di Cagliari
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