Quando si è impediti anche a tenere una piantina di basilico in casa perché il rischio è di mangiarlo al piombo, beh, ci sarebbe da chiedersi che vita si è costretti a fare a Portoscuso e dintorni. Già, l’Ilva non è solo Taranto, però è comodo pensare che il problema sia solo lì e non altrove.

Invece sono i numeri a dire che la Sardegna non ha nulla da invidiare ad altre regioni italiane quanto a inquinamento ambientale. Le aree Sin (siti di interesse nazionale da bonificare) si estendono per quasi 57mila ettari, collocando l’Isola al secondo posto della poco edificante classifica, dopo il Piemonte.

In dettaglio, a terra gli ettari contaminati sono 21.625 (terza dopo Piemonte e Liguria), in mare 35.164 (prima per distacco, segue la Sicilia con 16.910 ettari). I dati del ministero dell’Ambiente sono aggiornati al 2017, cioè quando è stato fatto l’ultimo rilevamento, ma sono ufficiali e attendibili.

In teoria, se confrontati con quelli di qualche anno fa quando le aree Sin riguardavano 445 mila ettari, ci sarebbe da gioire. Ma non è così.

"No – dice Stefano Deliperi, presidente del Gruppo d’intervento giuridico, associazione ambientalista da sempre impegnata in prima linea sul tema – perché la riperimetrazione delle superfici gravemente inquinate è avvenuta senza che nei territori esclusi venissero effettuate le bonifiche. Oggi queste sono a carico delle Province e dei Comuni che, come tutti sanno, non dispongono di risorse finanziarie adeguate. Di conseguenza la situazione è esattamente uguale a quella degli anni scorsi: non rientrano tra le aree Sin ma sono inquinate lo stesso".

Le aree inquinate sono concentrate in particolare nel Sulcis-Iglesiente e Guspinese, nella zona industriale di Porto Torres e a La Maddalena, ma preoccupano, e non poco, Sarroch e il suo hinterland, Furtei e Ottana-Macomer. Insomma, i problemi sono un po’ ovunque. Nel primo e più importante caso, alle attività minerarie di secoli si sono aggiunte in tempi recenti (circa mezzo secolo fa) le industrie pesanti di Portovesme che hanno contribuito ad ampliare la gamma di sostanze nocive disseminate nei terreni, in mare e nell’atmosfera. Negli anni Novanta del secolo scorso venne eseguito uno screening tra i ragazzi delle scuole di Portoscuso. Emerse che nel loro sangue il livello di piombo, tra gli altri metalli, era elevatissimo.

"La situazione è sotto gli occhi di tutti – insiste Deliperi – nessuno può far finta di niente. Qui si sta decidendo di lasciare ai figli un’eredità pesantissima, la piombemia, giusto per fare un esempio, non provoca solo tumori ma anche deficit intellettivi. Noi come associazione possiamo dare un impulso per un’inversione di rotta, per l’individuazione di un’alternativa. Ma miracoli, quelli no: non li possiamo fare. È la pubblica amministrazione, da una parte, a doversene occupare. Dall’altra, c’è la magistratura. Va poi considerato che a Portovesme la situazione è peggiore di Porto Torres e di Ottana".

In ogni caso, la situazione è molto grave. Giusto per saperlo, bonificare la Sardegna richiede, da una stima approssimata per difetto di Confindustria nel 2016, almeno 2 miliardi di euro. Che non sono pochi. E poi servono le professionalità, operai specializzati e tecnici. Ci sarebbe Igea spa, società in house della Regione, che ha come mission le bonifiche dei siti minerari, che interessano soprattutto Sulcis-Iglesiente e Guspinese. Peccato che solo di recente l’azienda sembra aver intrapreso la strada giusta dopo anni di disastri e cattive gestioni culminati con un’inchiesta giudiziaria clamorosa i cui esiti saranno definiti fra qualche tempo.

Tuttavia, Igea non è sufficiente. Le risorse messe a disposizione dall’amministrazione regionale finora non si sono dimostrate adeguate. E i lavori proseguono ovviamente a rilento.

Una per tutte: il rio Irvi, che sfocia sulla spiaggia di Piscinas, da anni è rosso per la presenza di arsenico, cadmio, piombo e zinco. Il colore lo si vede dal satellite eppure nessuno ha mai ritenuto si trattasse di una urgenza. Per il Comune di Arbus basta un cartello con su scritto che l’arenile è fruibile e che il rischio sanitario lo si corre con un’esposizione di almeno 60 giorni. Tradotto: i turisti sono salvi (nessuno trascorre due mesi in vacanza) i residenti un po’ meno (è la spiaggia più vicina al paese). Succede anche questo nella Sardegna che molti continuano a pensare incontaminata e che in diversi suoi angoli non lo è affatto.
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