In una Sardegna contrassegnata da una emergenza sanitaria senza precedenti, il Tribunale Amministrativo Regionale, Prima Sezione, con propria Ordinanza, in piena rispondenza a quello che è il trend dei Tribunali Nazionali, e come era lecito attendersi, ha respinto l’istanza di sospensiva avverso l’allontanamento dal lavoro di ben 173 operatori sanitari, dipendenti di strutture pubbliche, che avevano rifiutato il vaccino ed erano stati sospesi dall’impiego e dallo stipendio.

Al di là della pronuncia in se e per se considerata, e financo al di là della bontà delle ragioni addotte a sostenerla, persiste l’amarezza suscitata da una ineludibile constatazione di fondo: il rifiuto persistente al vaccino, e la cieca ostinazione che quel rifiuto accompagna, anche nella nostra realtà isolana, rappresentano per riflesso il vero ed unico “punctum dolens” dell’intera questione sanitaria, siccome un numero rilevante di cittadini non meglio identificabili “per specificazione” attraverso le loro qualità soggettive, in un contesto già critico per le varie “deficienze strutturali e strumentali” che lo contraddistinguono, si sono incautamente riscoperti accomunati non solo da un atteggiamento di “ingiustificato” ed “incomprensibile” rifiuto alla sottoposizione ad un atto di coscienziosità e di fratellanza sociale indispensabile per contrastare e/o contenere il diffondersi del contagio da Covid Sars - 19, ma anche da un atteggiamento di ostruzionistica ed individualistica indifferenza serrata rispetto alla collettività di appartenenza nell’ambito della quale continuano a voler prepotentemente vantare diritti infischiandosene altamente ed irresponsabilmente dei corrispettivi doveri.

DIRITTI E DOVERI – Dicendolo diversamente, e nel tentativo di chiarire imprescindibili concetti cardine del vivere civile, possiamo efficacemente sostenere che l’adempimento di un qualsivoglia dovere (nel caso specifico quello di vaccinarsi) da parte di ciascun individuo rappresenta una pre-condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio dei diritti (quali quelli inerenti il lavoro ad esempio) di tutti. Intanto, perché diritti e doveri, per comune e diffuso insegnamento, sono intimamente inter-correlati in ogni attività sociale e politica dell’uomo. Quindi, perché se è vero, come appare essere vero, che i diritti strettamente intesi valorizzano la dignità e la libertà individuale, tuttavia, appare essere altrettanto vero che i corrispettivi doveri diventano per ciò stesso necessaria espressione di quella dignità e di quella libertà. Infine, perché in un contesto di sana e vissuta “Democrazia”, nel circuito della quale, il “Demos” (ossia il “Popolo”) propriamente detto, voglia rappresentare l’autentico “Garante” del vivere armoniosamente in Comunità, diritti (quali quelli al lavoro, lo ribadiamo, e alla socialità) e doveri (quali quello di immunizzarsi attraverso la pratica della vaccinazione in funzione preventiva) possono riuscire a rinvenire un loro punto di equilibrio solo laddove sostenuti, entrambi, da una comune volontà solidaristica finalizzata all’esaltazione della “fraternité” partecipativa ed egualitaria. LE DOMANDE – Ebbene. Tanto dato per ammesso (ed altrimenti non potrebbe essere), possibile che l’unica misura utile da offrire in alternativa ad un atteggiamento diffuso di ostinata opposizione ad un trattamento sanitario di per se stesso ineludibile nella situazione contingente, possa essere solamente l’elaborazione di una Legge che introduca l’obbligo generalizzato di vaccinazione? Possibile che solamente attraverso un atto coercitivo impositivo (che non mi sentirei di biasimare eventualmente) si debba e/o si possa garantire, per paradosso, l’esplicazione piena delle nostre libertà fondamentali laddove non si verifichi una chiara e risoluta inversione di tendenza? Perché continua a perdurare questa difficoltà, e/o “scollamento” ideologico, nel tentativo di creare una relazione costruttiva tra “scienza” e “società civile”?

È fin troppo chiaro a mio modesto avviso: il rifiuto della medicina tradizionale rappresenta l’ennesimo rigurgito di un atteggiamento refrattario alle sollecitazioni provenienti dal già fragilissimo contesto sociale di rispettiva appartenenza. Si tratta, evidentemente, di forme incontrollate di “disagio” ideologico verso la corretta considerazione della dimensione “sociale e comunitaria”, vissuta, verosimilmente, ed interpretata, in funzione meramente utilitaristico-soggettiva, di cui taluna politica si avvale per alimentare (così pare essere, o perlomeno questo ne è il risultato) quel contesto confusionale disarmonico dal quale attingere la propria linfa rigeneratrice in totale dispregio di quella che dovrebbe essere la sua funzione docimologica primaria. E allora mi domando: la Politica, anche di carattere Regionale, ad oggi, continua a conservare e ad esprimere il proprio ruolo sociale all’interno delle Comunità che si fregia di rappresentare? È ancora in grado di farsi portavoce e guida di valori unitariamente condivisi direttamente orientati al perseguimento del bene primario? Chi controlla i controllori quando essi stessi, o taluni di essi ad onor del vero, si propongono, sia pure velatamente e contraddittoriamente, come parte attiva dello “scollamento” e del “fraintendimento” esistente tra “sapere scientifico” e “società civile”?

Se le risposte non arrivano dalla politica, da chi altri sarebbe lecito attendersele? Deve essere sempre quella Magistratura (financo isolana) che tanto impunemente si contesta a fare, per così dire, il “lavoro sporco” che la politica sembra oggi rifuggire per de-responsabilizzare se stessa e conservare intatte (si fa per dire) le condizioni della propria sopravvivenza?

LE RISPOSTE – Le risposte sono conseguenti e sottendono un presupposto comune: occorre arginare ogni sentimento anti-vaccinale per evitare di avallare pericolose condizioni legittimanti il sorgere di “atti discriminatori” cosiddetti “alla rovescia” nei confronti di coloro che per conseguire il rispettoso adempimento dei propri doveri civili si trovino costretti a subire ulteriori limitazioni alla propria libertà. Ci riusciamo? Sarebbe bene riuscirci se vogliamo veramente imprimere un segnale tangibile di cambiamento anche in ambito sanitario, ove il tracollo dell’intero impianto, che a tutt’oggi non riesce a garantire la gestione utile e razionale del cosiddetto “ordinario”, rappresenta il riflesso di un sistema organizzativo lasciato a se stesso e incapace di rispondere alle impellenti esigenze dei territori che dovrebbe servire. Se sia questione di incapacità politica, o piuttosto, e peggio, di mancanza di volontà di quegli stessi decisori politici, è difficile dirlo, specie perché, nell’un caso o nell’altro, il carico di responsabilità riconnesso alle potenziali omissioni interventistiche sarebbe di una gravità tale da necessitare l’adozione di soluzioni drastiche: una volta per tutte. Le legittime e comprensibili proteste che negli ultimi tempi hanno accompagnato la nostra quotidianità sono la rappresentazione disperata dello stato di bisogno in cui versa la Sanità Pubblica isolana, caratterizzata da deficit che appaiono allo stato incolmabili. Eppure non si muore solo di Covid, in Sardegna come nel restante contesto nazionale. Tuttavia la “Questione Sarda”, nel caso specifico declinata sul piano sanitario, si rivela sempre più per essere il risultato della sciatteria e della negligenza della classe dirigente, la quale, indipendentemente dal colore politico di appartenenza, nel corso degli anni trascorsi, non è riuscita, e/o non ha voluto, porre un argine concreto e definitivo al processo di decadimento del comparto sanitario.

Se quella stessa classe dirigente avesse bisogno o meno del “problema” per giustificare le ragioni della propria persistenza, non è dato sapere. Eppure sarebbe dovuto essere chiaro per tutti: solo attraverso il potenziamento della medicina territoriale si sarebbe potuto rilanciare l’intera sistema sanitario isolano, sotto-finanziato, carente in termini di programmazione e di coordinamento. Quali soluzioni oggi?

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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