Il suo negozio distrutto da un attentato di Boko Haram, la gamba gravemente ustionata, due anni nelle mani degli schiavisti libici.

E quando Peter Oisitandinma, ventiseienne nigeriano, è arrivato a Cagliari, una nuova disavventura: tre mesi trascorsi nel carcere di Uta, con l'accusa infamante di essere uno scafista.

Ma, ora, la vita comincia a sorridergli: il giovane frequenta il terzo anno di un corso professionale al Meucci, collabora, sia come artista che come tecnico, con il teatro di via Newton.

E ha anche trovato una fidanzata: con i pochi soldi che riescono a mettere insieme, hanno affittato una casa, nella speranza di crearsi un futuro migliore.

Un futuro che cancelli le disavventure vissute nel nord della Nigeria: nato da una famiglia, tutto sommato, benestante, aveva la "colpa" di essere cristiano proprio nella zona in cui è nata Boko Haram.

Dopo che gli è stata uccisa la madre, musulmana che si era "macchiata" dell'infamia di avere sposato un cristiano, ha deciso di lasciare il suo paese.

Ma, in quell'aprile 2015, appena sbarcato al Porto canale, è stato accusato di essere uno scafista.

"Il vero scafista", racconta, "dopo qualche miglia, è stato raggiunto da un'altra barca e se ne è andato. A quel punto, essendo l'unico in grado di capire il funzionamento del motore dal momento che avevo studiato al politecnico, mi sono messo al timone alla ricerca della salvezza".

Una tesi raccontata anche dai testimoni che sono sfilati al processo. E lui è stato assolto.
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