Il prezzo del grano continua a salire, ma non per i cerealicoltori, che hanno incassato in media 27 euro a quintale.

Al momento il valore è schizzato in alto di oltre il 65 per cento, raggiungendo 45 euro a quintale e producendo un surplus di oltre 10milioni di euro.

È quanto emerge dal report di Coldiretti Sardegna che denuncia come “per l’ennesima volta assistiamo alla privatizzazione degli utili, mentre i debiti sono sempre socializzati: una visione miope che strozza il primo anello della filiera”.

Secondo le elaborazioni di Coldiretti Sardegna sui dati Istat, nell’ultimo anno nell’Isola si è registrata una storica crescita degli ettari coltivati a grano duro: + 14,6%, con un passaggio da 18.066 ettari del 2020 ai 20.696. Cresciuta del 25,6% anche la produzione, passata dai 462.932 quintali del 2020 ai 581.355 quintali di quest’anno.

Una piccola inversione che arriva dopo anni neri che hanno portato ad una caduta libera sia della superficie coltivata che dei cerealicoltori.

Secondo Coldiretti, in sedici anni e cioè nella finestra 2004 – 2020 è andato perso oltre l’80 per cento (81,3) della superficie, addirittura 78.644 ettari, passando da 96.710 ettari a 18.066. E dire che la Sardegna tra la fine dell’800 e inizi del ‘900 era la seconda regione dopo la Sicilia in cui si coltivava più frumento duro in Italia: 158.000 ettari su 1,29 milioni totali (dato Laore). Negli ultimi vent’anni si sono dimezzati anche i cerealicoltori, passati da oltre 12mila a meno di 6 mila.

LA BEFFA – Ora l’inversione finalmente positiva, dovuta anche al prezzo dello scorso anno, quando si andò anche oltre i 30 euro a quintale, rischia di essere vanificata non solo dal nuovo calo (27 euro a quintale), ma soprattutto dall’impennata di oltre il 60 per cento verificatisi appena venduto il grano da parte dei produttori che ora si ritroveranno a seminare per la prossima annata con questi nuovi prezzi altissimi che stanno tirando su anche il grano da seme a cui si sommano un prezzo dei concimi alle stelle (+90 per cento), oltre a quello del gasolio. Il rischio è poi di assistere nel momento della raccolta magari ad un nuovo crollo che farebbe schiantare il settore cerealicolo sardo. Insomma una beffa.

E se da una parte i cerealicoltori sono attori passivi di questa impennata del prezzo dalla quale non hanno incassato neppure un euro, dall’altra i consumatori si ritrovano ad acquistare la pasta e gli altri derivati del grano che continuano a lievitare (nel prezzo) anche nello scaffale con un gioco di prestigio che vede bloccati gli utili nel segmento monco degli anelli estremi della filiera: il produttore ed il consumatore.

“Con l’aumento del prezzo si è creato una valore aggiunto di 10 milioni di euro dovuto alla crescita del prezzo di oltre il 60 per cento – ricorda il presidente di Coldiretti Sardegna, Battista Cualbu –, ma gli agricoltori ancora una volta non hanno goduto di questo incremento anzi lo stanno subendo cosi come i consumatori. Questo dimostra che gli accordi di filiera devono essere seri e virtuosi come quelli che stiamo proponendo come Coldiretti e che vanno a vantaggio di tutti gli attori”.

ACCORDI DI FILIERA – “Anche gli accordi di filiera devono essere condivisi e riconoscere pari dignità a tutti – spiega il direttore di Coldiretti Sardegna, Luca Saba – e allo stesso tempo devono avere l’obiettivo di valorizzare le produzioni locali, mirando a recuperare i deficit produttivi in molti settori importanti che interessano tutta l’Italia e non solo la Sardegna. Sul frumento duro destinato alla produzione di pasta l’Italia ha un deficit del 40 per cento. Ed in Sardegna siamo ai minimi storici nella produzione, crollati nella classifica delle Regioni dai primi posti ad oltre metà classifica”.

SICUREZZA ALIMENTARE – Ridurre la dipendenza dall’estero secondo Coldiretti significa anche ridurre i rischi per la sicurezza alimentare in un Paese come l’Italia, dove è scoppiato quasi un allarme alimentare al giorno per un totale di ben 297 notifiche inviate all’Unione Europea durante il 2020. Di queste “segnalazioni” solo 51 (il 17%) hanno riguardato prodotti con origine nazionale, mentre 146 prodotti di altri Stati dell’Unione Europea (49%) e 100  Paesi extracomunitari (34%). In altre parole oltre otto prodotti su dieci pericolosi per la sicurezza alimentare provengono dall’estero (83%). 

(Unioneonline/v.l.)

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