C'è un'armonia classica in ogni grande vino che lo eleva a opere di conoscenza. Proprio come il Partenone di Fidia o la Gioconda e l'Uomo vitruviano di Leonardo, la Nascita di Venere di Botticelli o le ossessive geometrie di Mondrian. La si può accostare a un incantevole paesaggio della natura o al moto delle galassie. Coglierla, operazione complessa ma possibile, significa percepire la bellezza in un calice. «Il vero fascino del vino risiede nella sua armonia, nell'equilibrio con il territorio che lo ha visto nascere». Luigi Moio, enologo e scienziato di fama mondiale, non è solo ordinario di enologia all'Università Federico II di Napoli, vice-presidente dell'OIV, l'Organisation Internationale de la Vigne et du Vin, accademico dei Georgofili e dell'Accademia italiana della Vite e del Vino. Moio, intellettuale partenopeo, una vita immerso nello studio del vino, è il ricercatore perpetuo dalle grandi conoscenze, cultore del dubbio.

L'armonia del vino - Si parte da qui, dunque, da concetti estetici ad ampio spettro. «Non parlo solo di bellezza in senso strettamente edonistico», precisa Moio, autore di innumerevoli pubblicazioni scientifiche, studi e ricerche trentennali sugli aspetti sensoriali del vino e in particolare sulle molecole odorose, partendo dall'uva, dunque la fermentazione e l'invecchiamento. «La bellezza del vino è qualcosa che va oltre la tecnica». Lo spiega bene nel suo libro "Il respiro del vino", best seller Mondadori, edito nel 2016: «Per degustare un vino non sono sufficienti solide conoscenze metodologiche, una vasta esperienza o una buona memoria olfattiva, ma occorre essere "artisti"».

La divina proporzione - «Più che di bellezza del vino è possibile meglio riflettere sul concetto di armonia. E questo mi fa pensare al rapporto aureo di Euclide. A quel numero magico che è alla base di tutte le cose armoniche e che in natura si ripete continuamente, dove effettivamente - dice Moio - l'osservatore riconosce e percepisce il bello. Ovviamente per il vino questo processo è molto più articolato». Innanzitutto perché è un liquido e di conseguenza non ha una forma propria ma assume quella del recipiente che lo contiene e poi perché è estremamente complesso. È una metafora della complessità. Le variabili in gioco sono tantissime, partendo dal legame stretto con la natura e quindi dal fatto che sia fortemente influenzato dall'interazione tra la pianta, il suolo, il clima, le stagioni e l'uomo». E nonostante tutto, è quanto di più autentico e naturale. «Forzando il concetto potremmo dire che è uno dei pochi prodotti al mondo inventati dall'uomo, assolutamente "monoingrediente", per cui non esiste una ricetta. Non è come la birra. Tutto è nel grappolo d'uva e in esso risiedono tutti i componenti del vino che, in un grande vino, devono essere già in perfetta armonia. L'artefice, colui che mette insieme tutti questi elementi, è la natura attraverso la vite». L'enologo, ma soprattutto lo scienziato Moio, osserva i fenomeni e prima delle risposte cerca le domande perfette. Un po' come Galilei, sente che nella sua indagine si trovano le verità naturali, si tratta di portarle in superficie. «So che una visione estetica del vino può essere considerata come una forzatura. Ma non è sbagliato cercare ciò nel grande vino. Cercare quell'armonia che le grandi menti del passato hanno tentato di spiegare con il rapporto aureo, con quell'1,618039 tanto caro a Euclide, Fibonacci, Leonardo e così via e che è possibile considerare il numero più importante al mondo. E devo dire la verità: «Ho lavorato a lungo sui vari rapporti, ma è estremamente difficile. Il vino è ineffabile, è sfuggevole alla misura assoluta e forse proprio per questo affascina tanto. Ma quel numero è quello dell'armonia che produce bellezza e piacere; e il vino che per certi versi può essere assimilato ad una composizione artistica di cui ci si innamora, non dovrebbe fare eccezione».

Buono e bello - «Usiamo spesso gli aggettivi, buono e bello per il vino. Dal mio punto di vista un vino buono significa esente da difetti, olfattivi e gustativi». I difetti sono democratici e alienanti. «Sono omologanti. Un vino con difetti sensoriali non può essere identitario. I difetti appiattiscono, sono uguali e ripetitivi in qualunque parte del mondo, e con la loro azione di soppressione e di mascheramento impediscono la restituzione del luogo di origine nel vino». Ma c'è dell'altro: «Se il vino sardo è affascinante perché è fatto in Sardegna e quindi bisogna ritrovare in quel vino un po' dell'Isola, allora bisogna andare oltre al buono. E oltre c'è la bellezza. Un grande vino, un vino irriproducibile e fortemente legato in modo armonico a un suolo e quindi a una vigna in un contesto pedoclimatico e sociale, è in equilibrio con quel contesto. Solo allora è bello». L'armonia di un vino non è altro che il rapporto magico tra quel vino e il suo appartenere a quel territorio.

La variabile vitigno - Individuare l'uva che è maggiormente in sintonia con quel territorio «è l'aspetto che sta alla base della storia della viticoltura e della produzione di grandi vini. Se una pianta cambia luogo ovviamente si genera un equilibrio diverso tra la pianta, il clima e il suolo e ci darà un prodotto diverso. Tutto sta nell'individuare - spiega Moio - quella combinazione in cui l'armonia è perfetta». Tecnica e conoscenze aiutano, ci permettono di fare vini migliori rispetto a prima e infatti «oggi ci sono vini buoni dappertutto nel mondo. Ma i grandi vini, non si possono fare ovunque, ma solo in quelle situazioni in cui si verifica la perfetta sintonia tra la vite, il suolo e il clima». L'Italia, in questo, sembra essere baciata dalla fortuna. «Il suo vantaggio: la differenza geografica dalle Alpi alla Sicilia e alla Sardegna. Negli anni i diversi vitigni si sono adattati ai vari differenti contesti territoriali. Penso alla Sardegna col Cannonau e il Vermentino; il Nebbiolo in Piemonte, il Sangiovese in Toscana, il Verdicchio nelle Marche, l'Aglianico, il Fiano, il Greco e la Falanghina in Campania, il Primitivo in Puglia e il Nero d'Avola in Sicilia, e così via. Con questi vitigni è più facile raggiungere la bellezza!».

Il vino salverà l'uomo - Questa diversità è un'altra peculiarità del vino. «In un mondo in cui tutto tende a livellarsi e ad omologarsi su determinati modelli convenzionali propri delle civiltà industriali occidentali, il vino fa la differenza, mantiene le sue radici geografiche e umane. Non solo, se tu bevi un vino lontano dai suoi luoghi di origine, quel calice è capace virtualmente di farti viaggiare e ti riconduce nei luoghi che hai visto e visitato». «Davanti all'omologazione planetaria che viviamo a causa della contrazione dello spazio, il vino è vincente perché è diverso nella sua infinita ricchezza varietale e territoriale, è anti-standard per definizione. Al livellamento enologico degli anni passati, dovuto al fatto che dappertutto si è puntato su poche varietà che si sono rapidamente diffuse in tutto il mondo (Merlot, Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Sauvignon blanc e qualche altra), oggi si osserva una leggera inversione di tendenza. Potrebbe esserci un futuro più interessante per i vini nuovi di cui si sa poco nel mondo e che sono fortemente legati ai differenti territori. In questo, per fortuna, l'Italia è la prima al mondo, è veramente il Paese del vino che può primeggiare a livello planetario».

La degustazione - Ma se è vero che basta pigiare un grappolo d'uva per produrre vino, altrettanto sbalorditiva è la complessità che si scatena al primo contatto col calice. «Il problema dei problemi. Il vino è un oggetto sensoriale totale, aggiunge Moio. A differenza di molte espressione del talento artistico degli uomini (la musica, la pittura, la scultura, la danza, ecc.) il vino è percepibile da tutti e cinque i sensi e per questo è estremamente difficile valutarlo e soprattutto è quasi impossibile ridurre al massimo la soggettività». Anche con l'udito. Il suono (ma Moio usa la parola "musica") di un grande vino inizia già dal tappo «perché crea una reazione in chi attende». Il tappo che non regala una musica non può essere affiancato a una grande bottiglia. Il vino che viene versato nel calice crea musica, predispone bene all'assaggio. Io personalmente quando degusto mi concentro, mi isolo da tutti, amo e voglio il silenzio assoluto ed è il silenzio assoluto che mi comunica il vino. Sono sicuro che l'udito ha un effetto fortemente sinergico sulla sensibilità degli altri sensi» «Nonostante i notevoli progressi scientifici e l'acquisizione di conoscenze molto avanzate, è comunque difficile dal punto di vista analitico valutare la qualità assoluta del vino. Posso valutare se c'è un difetto olfattivo, se l'acidità volatile è elevata, se c'è una contaminazione microbiologica, un elevato residuo zuccherino, una quantità di tannini sproporzionata e così via. La valutazione della qualità non può prescindere dall'assaggio, dunque, attraverso i nostri sensi. E poiché durante l'assaggio di un vino, il nostro cervello fa di tutto per dare un senso alle informazioni che arrivano, non è possibile eliminare completamente la soggettività ed è esattamente quello che accade quando cerchiamo di descrivere la bellezza». Eppure qualcosa sfugge sempre allo studioso: «Sì, perché un vino di elevatissima qualità ha in sé l'oggettività della bellezza. In altre parole è difficile dire che la Pietà di Michelangelo non sia bella, la Cappella Sistina non sia bella, difficile avere davanti agli occhi una costa della Sardegna, ammirarne il mare cristallino e non dire che sia una visione bella. Davanti a un grande vino si scattano le stesse dinamiche».

I difetti spacciati per pregi - Se la bellezza non si nasconde, il brutto non è equivocabile. «Pensiamo a quello che sta accadendo negli ultimi anni con queste nuove tendenze di vini fatti in tanti modi diversi nei quali spesso si vuol far passare un difetto olfattivo come elemento di tipicità. Ma è possibile scambiare la visione dell'infinità del mare e l'armonia di una costa della Sardegna con un panorama inadeguato?

Assistente della natura - E in tutto questo qual è il ruolo dell'uomo? Nel processo di vinificazione, deve veramente entrarci in punta di piedi e con mani vellutate. «Tutto è già stato fatto dalla natura. L'uomo deve semplicemente tenere la rotta, affinché non si perda il percorso naturale. L'enologo per me deve essere un assistente di processo, colui che prende il neonato, sta attento che questo bambino cresca bene, non si faccia male, e lo accompagna sino a 18 anni. Allora lo saluta e gli dice: ora vai avanti da solo. Quello è il momento in cui il vino va in bottiglia. Per fare questo però si richiedono approfondite conoscenze tecniche ed una solida formazione scientifica. Più conosco i meccanismi ed i processi biologici alla base di una corretta viticoltura ed una corretta enologia, più posso prevenire e meno intervenire». In questo Moio auspica un salto di qualità da parte di tutti. «Bisogna essere molto seri, responsabili e molto preparati, spiegando bene cosa è la viticoltura di qualità e come si fa in modo corretto il vino». Questa bevanda ha una fortuna straordinaria, ossia quella di essere naturale e autentica, perché è fatta solo da un grappolo d'uva ed ha la grande virtù di facilitare enormemente la manifestazione di naturali sentimenti di gioia. Il professor Moio conclude la nostra chiacchierata focalizzando l'attenzione sulle problematiche ambientali: «Oggi siamo di fronte a scelte non più rinviabili: è necessaria una maggiore attenzione alla sicurezza e alla salubrità alimentare, bisogna impegnarsi seriamente in una agricoltura verde, ossia un'agricoltura "pulita" e "pura" nei confronti dell'ambiente, della pianta, degli addetti ai lavori e di conseguenza dei consumatori. Chiaramente lo stesso discorso vale in cantina dove tematiche come "eco-winery" ed una enologia che io definisco "leggera" ossia una sorta di "mild-enology" sono concetti non più rimandabili e che vanno anch'essi affrontati con profonda umiltà e di conseguenza con l'aiuto della ricerca scientifica e della conoscenza. Infine, non bisogna più separare la viticoltura dall'enologia, è una cosa che dico da tantissimi anni. Nella produzione del vino di qualità non deve esserci questa divisione, l'enologia comincia dall'agricoltura. Il grande enologo è quello che prepara il grappolo perfetto!»

La convivialità - Certo davanti a un grande Vermentino sardo o all'armonia classica di un perfetto Cannonau posso anche non conoscere la divina proporzione, ma ciò che non può lasciarmi indifferente è il fascino dato da «quel processo di fusione tra cucina, geografia, storia, cultura, scienza, arte, natura. Ciò allontana virtualmente l'alcol dal vino, ed il vino diventa straordinario strumento pedagogico di responsabilità e di moderazione nel bere», precisa Moio. Allora sarà più emozionante il racconto di un grande calice. Indifferentemente se al cospetto di Monna Lisa o davanti al blu cobalto del mare della Sardegna.
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